giovedì 10 marzo 2022

Il calderone di Gundestrup, da est a ovest, da su a nord.

Questo post è un appendice al post "Cernunnos e gli altri "Buddha" occidentali. Rapporti e connessioni tra oriente e occidente", in cui sono andato a cercare diversi punti di contatto tra oriente e occidente in simboli e figure dell'antichità. Questa volta approfondisco alcuni punti veloci in quel testo, vedendo i collegamenti che ci sono tra le diverse aree interne all'Europa antica.

In  molti conoscono il dio celtico cornuto Cernunnos dalla sua rappresentazione cphe si trova sul Calderone argenteo di Gundestrup, è meno noto il fatto che questo calderone sia stato trovato in un'area ben lontana dall'area abitata dalle popolazioni celtiche ovvero la Danimarca. In effetti probabilmente si trattava di un bottino di guerra che veniva da altrove... la storia di questo oggetto è piuttosto complicata e apre diverse constatazioni che vado ad esaminare qui di seguito.

Ritrovamento: Il calderone venne scoperto nel 1891 nella torbiera di Rævemose in Danimarca ben nascosto sotto alcuni strati di suolo e diviso in vari pezzi. 7 pannelli esterni, 5 interni e uno a forma di disco dalla base. Le misurazioni dei pannelli però hanno evidenziato che un ottavo pannello esterno sia andato perso. L'ordine dei pannelli venne ricostruito da Sophus Müller (anche se non tutti gli studiosi sono d'accordo) e si pensa che quello mancante rappresentasse una divinità femminile. Il calderone era composto in massima parte d'argento, ma ci sono anche tracce d'oro, stagno (per la saldatura) e di vetro per gli occhi. La lavorazione però non sarebbe tutta della stessa epoca ma certi particolari sarebbero stati aggiunti durante i secoli, sempre in antichità. Si tratterebbe del più grande manufatto argenteo dell'età del ferro gallica.


Produzione e origini: Per anni la produzione del reperto venne datata intorno al III secolo a.C. ma recentemente le ipotesi più accreditate sono state aggiornate tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. o addirittura fino al III secolo. Sicuramente non si tratta di una produzione locale. Si pensa fosse infatti parte di un bottino guerra portato al nord da popolazioni germaniche. I soggetti rappresentati richiamano subito la mitologia celtica, ma non solo e la lavorazione dell'argento è compatibile con le manifatture trace ovvero dell'area dell'attuale Bulgaria. L'ipotesi più probabile è quella che il calderone sia stato prodotto in Tracia, alcuni pensano da una manifattura tracia per un'elite gallica oppure proprio in una situazione multiculturale. In effetti nella zona del basso Danubio coesistevano sia tribù locali come i Triballoi che di origine celtica, gli Scordisci. I primi erano originari proprio dell'area che oggi si trova tra Serbia e Bulgaria, i secondi invece erano una popolazione mista di genti native delle foci del fiume Sava e altre di origine gallica che avevano ripiegato qui dopo le spedizioni nei balcani del III e IV secolo a.C.. Questa tesi avrebbe senso anche perché proprio gli Scordisci si scontrarono con la tribù germanica dei Cimbri che, provenienti dallo Jutland invasero queste terre. Questi ultimi poi si scontrarono ancora con i romani, ma anche se vittoriosi subirono gravi perdite e in parte tornarono a Nord. In breve, si pensa che il calderone sia stato prodotto in Tracia in un contesto celtico ma multiculturale, venne poi preso come bottino dalle tribù cimbre che ripiegando a nord lo portarono con loro in Danimarca. Una datazione più recente complicherebbe tutta questa situazione e sarebbe difficile pensare ad un oggetto di questa portata con riferimenti culturali di questo tipo in un'epoca in cui l'area era ormai romanizzata.


I pannelli: oltre al pannello 1, su cui è rappresentato Cernunnos e di cui abbiamo già parlato nel testo principale, c'è molto altro di cui parlare e di cui generalmente non si presta la dovuta attenzione. Ad esempio potremmo partire dal pannello dei guerrieri (immagine sopra). Su di esso sono rappresentati dei guerrieri, appunto, disposti su due file: quelli sotto, a piedi, hanno degli scudi lunghi, elmi, tuniche a pantalone e gli ultimi in fondo suonano il famoso "carnix" una tromba zoomorfa, tutti attributi celtici e si tratterebbe quindi della fanteria. La fila superiore invece è chiaramente la cavalleria. A lato un personaggio più misterioso e grande tiene con le mani uno dei fanti e sembra metterlo in un recipiente. 
La teoria più accreditata è che si tratti di una rappresentazione del processo di metempsicosi in cui credevano i celti e di cui ci da testimonianza Cesare nel De Bello Gallico: i fanti che muoiono in battaglia passerebbero al cospetto della divinità (la grandezza maggiore del personaggio a lato, come nelle altre rappresentazioni del calderone) che li farebbe passare attraverso un varco e rinascere cavalieri. Una visione molto pratica della reincarnazione, ma ce lo fa notare anche Cesare appunto. Altri vedono della scena un sacrificio umano e nel grande personaggio la rappresentazione di una divinità, probabilmente Teutates, al quale, come ci dicono alcuni autori classici venivano offerti sacrifici umani annegando le vittime. 


L'altro pannello incredibilmente interessante è la placca interna della Dea con gli elefanti. Anche di questo ho già parlato nell'articolo principale. In alcuni testi si fa fatica addirittura ad ammettere che i due animali a lato della dea siano elefanti: grandi, con la proboscide e le zanne, cosa potrebbero essere? Del resto il calderone è pieno di animali esotici come leopardi o come quello sotto al centro difficile da riconoscere e da due grifoni. In ogni caso questo pannello è molto interessante perché come quello con il dio cornuto si ricollega direttamente alla tradizione induista: La dea Lakshmi infatti viene generalmente rappresentata assisa in mezzo a due elefanti che la proteggono. Se il paragone sembra azzardato vi rimando per l'ennesima volta al testo principale qui: LINK, a tutti i punti di contatto tra Cernunnos e Shiva Pashupati del pannello I e al fatto che Alessandro Magno e il suo esercito fossero stati in India verso il 326 a.C.


Altro pannello importante è quello in cui è rappresentata... (Da finire)













***Quando si sente parlare per la prima volta della Reincarnazione, naturalmente si suppone si tratti di una dottrina esclusivamente indiana, poichè è risaputo che Induismo e Buddhismo la hanno come fondamento, tuttavia le sue origini non vanno ricercate esclusivamente in questi ambiti, ma ne possiamo trovare tracce fra gli aborigeni della lontana Australia, come pure sappiamo che veniva insegnata dai Druidi dell’antica Gallia di Giulio Cesare.  Anche i filosofi greci, non ultimo Platone con la metempsicosi delle anime, parlavano di Reincarnazione, come pure il Cristianesimo e, nella tradizione ebraica, il Talmud cita diversi casi di Reincarnazione.



Chi erano i Liguri? Un breve e accuratissimo documentario video.

 

Per seguire il canale Youtube di Evropantiqva, veramente interessante, questo è il link:
https://www.youtube.com/channel/UCLLIcVhp1EAThLHsMEirpdA

mercoledì 2 marzo 2022

La compassione universale (buddismo e vegetarianismo)


Qualche tempo fa mi sono imbattuto nella fondazione del monaco buddista tibetano Ven. Geshe Thupten Phelgye "Universal Compassion Foundation" appunto che fin da quando era un giovane monaco si batte per la compassione verso tutti gli esseri senzienti, anche per gli animali, come insegnò il Buddha. Infatti, anche se molti in occidente pensano che i Buddisti siano vegetariani, non esiste nessuna regola precisa, ad eccezione dei monaci di alcune forme di buddismo come lo zen. Questo è un argomento molto controverso, infatti, anche se il primo precetto della "corretta azione" che ogni buddista dovrebbe seguire dice "Non uccidere nessun essere senziente" come per molte altre religioni, negli anni alcune regole sono state raggirate per comodità. Ed è così che anche se ogni monaco non può ne uccidere, ne arrecare alcuna violenza a nessun altro essere vivente, in molti monasteri si compra la carne. Il Ven. Geshe Thupten Phelgye spiega sulla pagina del suo movimento che in diversi discorsi del Buddha si sconsiglia di mangiare carne ad esempio nel Lankavatara Sutra egli dice: 

" io guardo tutti gli esseri come se fossero miei figli. E perché dovrei approvare il mangiare la carne dei propri figli?", "Non approverò mai il consumo di carne."*

Il problema è che in molti monasteri i monaci si giustificano in vari modi:
  • Ad esempio dicendo: "Noi non uccidiamo, compriamo solo la carne".
  • Spesso vengono male interpretate le parole del Buddha che una volta rispondendo ad una domanda disse: "Se steste per morire di fame e trovaste un animale morto potreste mangiare la sua carne, ma che il quel caso dovreste essere certi che non sia stato ucciso per essere mangiato: non dovreste avere visto nessuno che lo uccidesse per mangiarlo, non dovreste aver udito nessuno che lo uccidesse per mangiarlo, non dovreste avere nessun dubbio sul fatto che qualcuno lo abbia ucciso per essere mangiato."
  • Altri dicono che sarebbe irrispettoso accettare il cibo, qualora esso fosse a base di carne, offerto ai monaci durante la questua da parte dai loro seguaci.

Sempre riguardo al buddismo tibetano, ci sono stati molti importanti monaci che hanno dato una grande importanza alla compassione per gli altri animali:

Uno dei tertön più importanti del Tibet, Jigme Lingpa, scrisse della sua grande compassione per gli animali. Era particolarmente orgoglioso della sua compassione verso di loro e riteneva questo l'aspetto più importante della sua vita. Soffriva nel vedere gli animali macellati, spesso li comprava per liberarli e persuase i suoi seguaci a salvare una yak femmina dalla macellazione, esortando costantemente i discepoli a non uccidere animali.

Shabkar Tsokdruk Rangdrol, in La vita di Shabkar, affermava che bisognava coltivare amore, compassione e Bodhicitta, e smettere di mangiare carne, poiché è sbagliato nutrirsi della carne di esseri senzienti che sono stati nostri genitori in vite passate.

Il 14° Dalai Lama ha elogiato il vegetarianismo, definendolo "meraviglioso" e raccomandandone la promozione. Anche se in passato ha provato a diventare vegetariano, nel 1999 si è saputo che lo era solo a giorni alterni. A Dharamsala segue una dieta vegetariana, ma altrove può mangiare carne. Paul McCartney lo ha esortato a tornare al vegetarianismo stretto, ma il Dalai Lama ha risposto che i suoi medici gli avevano consigliato di mangiare carne.

Altri lama che sono diventati vegetariani includono:

  • Tenzin Wangyal Rinpoche (dal 2008)

  • Arjia Rinpoche (dal 1999)

Il Karmapa Urgyen Trinley Dorje, uno dei due riconosciuti come il 17° Karmapa, nel 2007 ha fortemente raccomandato il vegetarianismo, dicendo che sia nel Mahayana che nel Vajrayana non si dovrebbe mangiare carne. Ha citato antichi maestri come Drikung Shakpa Rinpoche, i quali affermavano che usare carne nei rituali o considerarla sacra è contrario al Dharma.


 

 Bisogna comunque ricordare che in molti monasteri che seguono altre forme di buddismo come lo zen appunto, la dieta vegetarian o vegana è la regola. Uno dei più grandi maestri buddisti contemporanei, monaco zen vietnamita e convinto pacifista, recentemente scomparso, Thich Nhat Hanh promuoveva l'alimentazione vegana nei suoi libri pieni di compassione e la stessa dieta era la regola nella comunità che aveva fondato, il Plum Village.

 


* Altre citazioni dal Lankavatara Sutra sul cosumo di carne:
  • Poiché i macellai vendono indiscriminatamente carne d'asino e di cammello, di volpe e di cane, di bestiame, di cavallo, d'uomo insieme a quella di altri animali, non dovete mangiare carne. (sezione XC; p. 201)
  • E ancora, non dovete mangiare carne perché ciò impedisce ai praticanti di dare origine a pensieri di compassione. (sezione XC; p. 201)
  • Non dovete mangiare carne perché chi uccide le creature viventi prende tanto gusto al sapore della carne che, quando vede un essere, pensa a questa. (sezione XC; p. 201)
  • Non approverò mai il consumo di carne. (sezione XC; p. 202)
  • Inoltre, Mahāmati, chi uccide lo fa per profitto. Uccidono le creature e le vendono al mercato, dove gli ignoranti che mangiano carne usano la rete del denaro per catturare la loro preda. (sezione XC; p. 202)
  • Mahāmati, quando si tratta di carne o pesce, non si può parlare di "non chiederla, non cercarla, non pensare a essa". Per questo motivo, non dovete mangiare carne.
  • Mahāmati, in alcune occasioni ho proibito di mangiare cinque tipi di carne, e in altre dieci tipi. Oggi [...] dico: assolutamente niente carne. Mahāmati, il Tathāgata, l'Arhat, il Perfetto Illuminato non ha mai mangiato né tanto meno ha insegnato a mangiare pesce o carne. A causa dei miei atti di grande compassione nel passato, io guardo tutti gli esseri come se fossero miei figli. E perché dovrei approvare il mangiare la carne dei propri figli? (sezione XC; p. 202)
  • Gli esseri in un'età futura | potrebbero stupidamente dire della carne: | "È pura e non è sbagliato, | i buddha hanno detto che possiamo mangiarne". (sezione XC; p. 204)
Aggiungo anche un video, sempre da youtube, della venerabile Chang Zao (suora buddista del Dhram Drum Malaysia, paese a maggioranza mussulmana in cui i buddisti sono sottoposti a pesanti restrizioni) che dice alcune delle cose più ragionevoli sul vegetarianismo (e veganismo) che abbia sentito, non solo in ambito buddista.


In Cina, Corea, Vietnam, Taiwan e nelle rispettive comunità della diaspora, ai monaci e monache buddhisti è richiesto di astenersi dal mangiare carne, e tradizionalmente anche uova e latticini, oltre alle verdure fetide conosciute come le cinque spezie pungenti (in cinese: 五辛; pinyin: Wǔ xīn), che includono: aglio, Allium chinense (cipollotto cinese), assafetida, scalogno, Allium victorialis (cipolla vittoriosa o porro di montagna). La motivazione dell'astensione dalle erbe pungenti però è in relazione al loro forte gusto, digeribilità e tendenza ad eccitare il corpo che contrasta con la meditazione.

Il vegetarianismo puro o il veganismo ha origini indiane (indic) ed è ancora praticato in India da alcuni seguaci delle religioni dharmiche come il giainismo e, nel caso dell’induismo, il latto-vegetarianismo, che include anche l’astensione dalle verdure pungenti o fetide.

LINKS:
https://www.purelandbuddhism.org/cp/4-1-4/639 Buddismo della terra pura e vegetarianismo.

The Lankavatara Sutra: chapter 8, on meat eating:

martedì 1 marzo 2022

La difficile cristianizzazione del PIemonte.


IL PIEMONTE E LA DIFFICILE CRISTIANIZZAZIONE: abbiamo visto in diversi post come il Piemonte sia stato praticamente fino al '700 un'area di passaggio con caratteri particolari e dal grande valore militare ma alla fine sempre un po' marginale rispetto al resto della penisola italica o alla Francia. Le città romane nacquero qui con grande ritardo rispetto al resto del paese e quando i alcuni centri divennero importanti città, le campagne restarono in molti casi luoghi molto selvaggi, per lo più ricoperti da montagne, boschi e paludi. Quando i primi santi arrivarono per evangelizzare la popolazioni non trovarono un computo facile (leggi: Sant'Eusebio e la cristianizzazione del Piemonte) e quando i primi "barbari" giunsero in zona all'inizio del medioevo, in un epoca di grande confusione, si trovarono nelle campagne a che fare con una situazione rurale difficile in alcuni casi ferma al periodo precedente alla conquista romana. Fu così che con l'arrivo di San Colombano a Bobbio partì un periodo di evangelizzazione Irlandese nelle zone che vanno dal Monferrato alla Valle d'Aosta, non privo di scontri e momenti bizzarri (leggi: Meroveo e la persistenza del paganesimo...) e caratterizzato da una grande repressione dei culti e persistenze pagane da parte della chiesa. Tuttavia le campagne continuavano ad essere troppo isolate e selvagge e l'adorazione di pietre e sorgenti, rituali rurali vari, impossibili da eliminare vennero mano a mano accettate e cristianizzate. Questo da il via ad un periodo di quasi accettazione, molto diverso da quella che è la nostra normale idea di medioevo, in cui nelle città la nuova religione è ormai ufficiale anche se non libera di influenze precedenti, nelle campagne si assiste ad una coesistenza più o meno pacifica tra culti ufficiali e popolari oggi molto difficile da comprendere. Di alcuni santi popolari, in particolare alpini e piemontesi, conosciamo in realtà solo la parte folklorica, non ci è giunto niente di scritto ed è sempre difficile capire quanto fossero beati e quanto fossero santoni o guaritori di campagna (leggi: San Baudolino...) Verso l'anno mille l'Europa sembra rinascere, anzi l'Europa che conosciamo oggi forse nasce proprio in grazie ai secoli precedenti e nel romanico l'influenza "barbarica" evidente si affina sempre più con il riemergere delle culture pre-romane e anche preistoriche del vecchio continente. Se dal punto di vista artistico il picco è raggiunto dalle cattedrali nei centri urbani, nelle piccole chiese di campagna "sacro e profano" si fondono in modo ancora più diretto in modo, delle volte, difficile da accettare e comprendere anche per noi contemporanei (leggi: San Secondo a Cortazzone).

Al riguardo Virgilio Gilardoni scrive:

"L'antica Europa romana, sconvolta dalle ondate delle migrazioni e delle incursioni barbariche si rinnova, nel Medioevo, per i profondi moti di assestamento demografico che lacerano lo strato sottile della sua civiltà latina. Tornano a pullulare ovunque le antiche e mal represse culture preistoriche e protostoriche, italiche, celtiche, germaniche, iberiche, liberare e fecondate dal nuovo lievito barbarico di Franchi, Alamanni, Sassoni, Visigoti, Svevi, Alani, Vandali, Eruli, Burgundi, Ostrogoti, Longobardi."
"...la vita spirituale delle popolazioni assume aspetti di patologia collettiva; le superstizioni si accavallano, si sviluppano e si fondono in un caos in cui a stento si discernono le componenti giudaiche, celtiche, germaniche, romane e cristiano popolari. I rapporti dell'uomo con la natura divetano morbosi: ogni cosa sembra nascondere l'insidia di forze malefiche e di demoni; ogni avvenimento è segno di eventi ultraterreni, di minacce, di pericoli, di punizioni che si tentano di domare con forme popolari di scongiuro e di esorcismo. Talvolta vere manifestazioni di pazzia collettiva esplodono fra le masse; basta la figura d'un falso profeta o d'un pazzo a scatenare rivolte persino oscene, in cui si liberano antichi bisogni erotici conculcati e altrettanto antiche aspirazioni di ribellione delle plebi, trascinando, nel turbine della follia, preti, vescovi, chierici e popolo. Prodigi e miracoli sono nell'ordine delle cose, fatti normali, ormai di tutte le cronache..."

Da "Il Romanico" Biblioteca Moderna Mondadori 1963

sabato 8 gennaio 2022

Ciclismo lento: cicloturismo vintage, appennino emiliano-romagnolo 1986

 Da tempo ho scritto un post su questo blog che resta impubblicato perché non lo finisco mai, non riesco a trovare gli aggettivi giusti e cose del genere per finirlo. In ogni caso, la bici ossia l'andare in bici, ma anche a piedi, non come pratica sportiva, ma come locomozione più "umana" e non inquinante da un lato e come attività contemplativa per ritrovare un rapporto con il mondo naturale è uno degli interessi di questa paginetta. Devo dire che sono anche un gran feticista dell'oggetto, specialmente dei telai in acciaio e delle bici meno tecnologiche, quelle che si possono riparare da soli anche dopo decenni ecc... le bici comode, ma di questo appunto voglio parlare in quel post che è come un introduzione a tutto questo. In Italia il ciclismo ha una storia lunghissima e mitica, il problema è che al contrario di altri paesi, viene nella maggior parte dei casi vista come un mezzo sportivo per fare "Performance" e se andate a cercare una bici da turismo per farvi una vacanza su due ruote o per girare in campagna nel tempo libero o muovervi in città, vedrete che la maggior parte dei rivenditori cercherà sempre di vendervi una mezzo da corsa, una mountain bike, o attualmente una gravel (da competizione magari). Ecco io vorrei che come in altri paesi, la Germania, l'Olanda... ma anche la Francia diventasse popolare anche un modo meno competitivo e più amichevole di usare la bicicletta. Ho visto che qui in molti lo chiamano "ciclismo lento" e per semplificare ho deciso di usare questo termine per questi post.

Questo post l'ho scritto per il mio blogghino personale, ma penso che sia perfetto per "Le radici degli alberi" anche per allargare un po' gli orizzonti.

Le foto che pubblico qui sono prese da un articolo uscito sul numero '65 della rivista Airone del 1986. Ai tempi la rivista era veramente ben fatta  (un altro mondo rispetto a quella che esce oggi) e io da bambino la guardavo e riguardavo, ne ho diversi numeri, mi ha fatto sognare un mondo e un paese diverso. Le cose purtroppo non sono andate esattamente come pensavo in questo paese, così riguardare certe cose penso potrebbe essere utile non solo a me, vedere che certe cose succedevano anche qui e forse bisognerebbe ricordarselo in un periodo in cui sembra che la cultura italiana sia solo la cucina o la nazionale di calcio. 

Bene, su quel numero c'era un bell'articolo da titolo: "Scoprite l'appenino in bici" e venivano presentati 4 itinerari sull'appennino emiliano-romagnolo con bellissime foto che con il tempo hanno preso quell'aspetto vintage che fa sognare. 

Un'altra cosa che amo tantissimo di questo servizio, di quell'epoca e della rivista (eccezion fatta per alcune pubblicità) è la sobrietà generale. Le persone, lo stile delle foto, le biciclette, c'è sempre questa eleganza sobria che oggi manca completamente a tutti i livelli. 


I luoghi ritratti nelle foto sono bellissimi, i paesi dell'appennino nel 1986 non erano ancora stati ristrutturati come oggi, ma, per lo meno quelli in queste foto, non erano assolutamente decadenti, si vede bene quell'atmosfera novecentesca analogica e l'assenza quasi totale delle automobili che riescono a deturpare oggi anche i borghi più belli.


I paesaggi appenninici a me molto cari, hanno anch'essi quella patina analogica che crea un po' di nostalgia, ma allo stesso tempo fa venire una voglia irresistibile di prendere e uscire in bici. Sarebbe bello ritrovare quel piacere di uscire per godersi il viaggio e i panorami senza pensare alla performance: sia chiaro per me è così, e certo per questi percorsi ci vuole un minimo di preparazione, ma generalmente mi trovo da solo, che è una cosa in effetti altrettanto bella. Un'ultima nota, più feticista, è legata alle biciclette: i nostri amici sono in sella a biciclette da corsa adattate da turismo "alla francese", in questo caso non sono proprio tipo randonneur, penso anche che all'epoca fossero un po' sparite e in Italia non sono mai state molto popolari. In ogni caso sono in acciaio ovviamente, è possibile farsene una simile oggi, magari con qualche accorgimento moderno (rapporti più comodi per esempoio) con veramente un budget ridicolo. Le randonneur erano un po' le antenate delle gravel più stradali di oggi: simili alle bici da corsa (in alcuni casi erano proprio bici da corsa adattate) con una borsa a manubrio o sul portapacchino anteriore e con la possibilità di mettere parafanghi e altro. (Nota: Anche su questo un giorno farò magari un post dedicato)


I percorsi sono 4 appunto e potete vederli nell'immagine qui sopra. Ovviamente questo post è un ricordo, se vogliamo una celebrazione di quel servizio quindi non scrivo tutto ma se vi interessa potete trovarlo a risoluzione più alta qui: https://www.flickr.com/photos/94063501@N00/albums/72177720295645943



sabato 20 novembre 2021

La Tavola di Polcevera: testimonianze delle popolazioni liguri.

Penso che questo sia uno dei post più interessanti apparsi su questo blog, parleremo di una delle più notevoli e purtroppo poco conosciute testimonianze sul passato preromano e sulle popolazioni liguri che occupavano l'area dell'entroterra genovese verso il basso Piemonte. Si tratta dell'iscrizione della tavola di Polcevera: una lamina bronzea spessa 0,2 cm, alta 38 cm e larga 48 cm sulla quale è stata incisa una sentenza in lingua latina emessa dal Senato di Roma nel 117 a.C. su una questione di confini tra le popolazioni liguri locali ed è importantissima sia per la storia delle popolazioni locali che per la storia del diritto. Attualmente si trova al Museo Civico di Archeologia Ligure di Pegli (Genova).


Il ritrovamento:
La tavola in questione venne scoperta nel 1506 nel greto del torrente Pernecco a Pedemonte di Serra Riccò da un contadino del luogo, Agostino Pedemonte che la portò a Genova per vendere il metallo e farla fondere. Per grandissima fortuna la notizia del ritrovamento giunse allo storico e vescovo Agostino Giustiniani che la fece acquistare dal Governo della Repubblica di Genova. Lo stesso Giustiniani la tradusse in Italiano e qui di seguito ne forniamo il testo in Italiano (da Wikipedia):

«Quinto e Marco Minucji, figli di Quinto, della famiglia dei Rufi, esaminarono le controversie fra Genuati e Viturii in tale questione e di presenza fra di loro le composero. Stabilirono secondo quale forma dovessero possedere il territorio e secondo quale legge si stabilissero i confini e ordinarono di fissare i confini e che fossero posti i termini. E comandarono che, quando fossero fatte queste cose, venissero di presenza a Roma. A Roma di presenza pronunciarono la sentenza, in base ad un decreto del Senato, alle Idi di Dicembre sotto il consolato di Lucio Cecilio, figlio di Quinto e di Quinto Muzio, figlio di Quinto.In base alla quale sentenza fu giudicato: esiste un agro privato del castello dei Viturij il quale agro possono vendere ed è lecito che sia trasmesso agli eredi. Questo agro non sarà soggetto a canone. I confini dell'agro privato dei Langati: presso il fiume Ede, dove finisce il rivo che nasce dalla fonte in Manicelo, qui sta un termine. Quindi si va su per il fiume Lemuri fino al rivo Comberanea. Di qui su per il rivo Comberanea fino alla Convalle Ceptiema. Qui sono eretti due termini presso la via Postumia. Da questi termini, in direzione retta, al rivo Vindupale. Dal rivo Vindupale al fiume Neviasca. Poi di qui già per il fiume Neviasca fino al fiume Procobera. Quindi già per il Procobera fino al punto ove finisce il rivo Vinelasca; qui vi è un termine. Di qui direttamente su per il rivo Vinelasca; qui è un termine presso la via Postumia e poi un altro termine esiste al di là della via. Dal termine che sta al di là della via Postumia, in linea retta alla fonte in Manicelo. Quindi già per il rivo che nasce dalla fonte in Manicelo sino al termine che sta presso il fiume Ede. Quanto all'agro pubblico posseduto dai Langensi, i confini risultano essere questi. Dove confluiscono l'Ede e la Procobera sta un termine. Di qui per il fiume Ede in su fino ai piedi del monte Lemurino; qui sta un termine. Di qui in su direttamente per il giogo Lemurino; qui sta un termine. Poi su per il giogo Lemurino; qui sta un termine nel monte Procavo. Poi su direttamente per il giogo alla sommità del monte Lemurino; qui sta un termine. Quindi su direttamente per il giogo al castello chiamato Aliano; qui sta un termine. Quindi su direttamente per il giogo al monte Giovenzione; qui sta un termine. Quindi su direttamente per il giogo nel monte apennino che si chiama Boplo; qui sta un termine. Quindi direttamente per il giogo apenninico al monte Tuledone; qui sta un termine. Quindi già direttamente per il giogo al fiume Veraglasca ai piedi del monte Berigiema; qui sta un termine. Quindi su direttamente per il giogo al monte Prenico; qui sta un termine. Quindi già direttamente per il giogo al fiume Tulelasca; qui sta un termine. Quindi su direttamente per il giogo Blustiemelo al monte Claxelo; qui sta un termine. Quindi già alla fonte Lebriemela; qui sta un termine. Quindi direttamente per il rivo Eniseca al fiume Porcobera; qui sta un termine. Quindi già per il fiume Porcobera fin dove confluiscono i fiumi Ede e Porcobera; qui sta un termine. Sembra opportuno che i castellani Langensi Viturii debbano avere il possesso e il godimento di questo agro che giudichiamo essere pubblico. Per questo agro i Viturli Langensi diano, quale contributo, all'erario di Genua ogni anno 400 "vittoriati". Se i Langensi non pagheranno questa somma e nemmeno soddisferanno i Genuati in altro modo, beninteso che i Genuati non siano causa del ritardo a riscuotere, i Langensi saranno tenuti a dare ogni anno all'erario di Genua la ventesima parte del frumento prodotto in quell'agro e la sesta parte di vino. Chiunque Genuate o Viturio entro questi confini possieda dell'agro, chi di essi li possieda, sia mantenuto nel possesso e nel godimento, purché il suo possesso dati almeno dalle calende del mese Sestile del consolato di L. Cecilio Metello e di Quinto Muzio. Coloro che godranno di tali possessi pagheranno ai Langensi un canone in proporzione, così come tutti gli altri Langensi che in quell’agro avranno possessi o godimenti. Oltre a questi possessi nessuno potrà possedere in quell'agro senza l'approvazione della maggioranza dei Viturii Langensi, e a condizione di non introdurvi altri che Genuati o Viturij, per coltivare. Chi non obbedisce al parere della maggioranza dei Langensi Viturii, non avrà ne godrà tale agro. Quanto all'agro che sarà compascuo sarà lecito ai Genuati e Viturii pascervi il gregge come nel rimanente agro genuate destinato a pascolo pubblico; nessuno lo impedisca e nessuno s'opponga con la forza e nessuno impedisca di prendere da quell'agro legna o legname. La prima annata di canone, i Viturii Langensi dovranno pagarla alle calende di gennaio del secondo anno, all'erario di Genua, e di ciò che godettero o godranno prima delle prossime calende di gennaio non saranno tenuti a pagare canone alcuno. Quanto ai prati che durante il consolato di L. Cecilio e Q. Muzio erano maturi al taglio del fieno, siti nell'agro pubblico, sia in quello posseduto dai Viturii Langensi, sia in quello posseduto dagli Odiati, dai Dectunini e dai Cavaturini e dai Mentovini, nessuno vi potrà segare né condurvi bestie al pascolo, né sfruttare in altro modo senza il consenso dei Langensi e degli Odiati, e dei Dectunini e dei Cavaturini e dei Mentovini, per quella parte che ciascuno di essi possederà. Se i Langensi o gli Odiati, o i Dectunini o i Cavaturini o i Mentovini vorranno in quell'agro stabilire nuovi patti, chiuderlo, segarvi il fieno, ciò potranno fare a condizione che non abbiano maggiore estensione di praterie di quel che ebbero e godettero nell'ultima estate, Quanto ai Viturii, che nelle questioni con i Genuensi, furono processati e condannati per ingiurie, se qualcuno è in carcere per tali motivi, i Genuensi dovranno liberarli e proscioglierli prima delle prossime Idi del mese Sestile. Se a qualcuno sembrerà iniquo qualcosa di quanto è contenuto in questa sentenza, si rivolga a noi, ogni giorno primo del mese che siano liberi da cause sulle controversie e sugli affari pubblici.»

Moco Meticanio, figlio di Meticone
Plauco Pelianio, figlio di Pelione

Come si può capire si tratta di un testo straordinariamente importante in quanto, oltre alla testimonianza giuridica, grazie ad esso siamo in grado di conoscere i nomi di diverse tribù liguri della zona, sappiamo che attorno al primo secolo prima di Cristo, nonostante la conquista romana, le genti erano ancora liguri, anche gli stessi Genuati. Possiamo addirittura conoscere gli antichi nomi liguri di monti, fiumi e torrenti anche se non è facile capire a quali corrispondessero oggi.

La contesa e il contesto in breve: 
Nel 113 prima di Cristo i liguri Genuati e i Viturii Langenses della Val Polcevera chiamano ad arbitrare una loro disputa territoriale i senatori romani Quinto e Marco Minucio Rufo, di una importante famiglia patrizia che aveva forti legami con i galli padani in quanto discendenti del console Quinto Minucio Rufo che nel 197 a.C. aveva sconfitto i Boi e varie tribù liguri e ne era divenuto "protettore". Per Roma infatti Genova e la Val Polcevera erano diventate molto importanti con la costruzione del 148 a.C. della via Postumia che collegava la costa alla Gallia Cisalpina.

Quello che bisogna sapere:
Le popolazioni liguri dell'età del ferro occupavano gran parte del territorio che va dalla zona di Marsiglia fino al nord dell'attuale Toscana ma anche l'entroterra a nord di questa costa fino all'attuale Svizzera. Erano di cultura celtica e parlavano una lingua di questa famiglia e non si differenziavano molto dalle altre popolazioni galliche anche se l'inospitalità di queste terre, li rendeva agli occhi dei romani particolarmente "rudi". Vivevano di sussistenza con attività di silvicoltura e pastorizia e abitavano in Capanne di legno e paglia arroccati in oppida o castellari. Se molte di queste popolazioni resistettero e combatterono i romani fino all'ultimo, altri popoli, come i Genuati (che fondarono Genova) iniziarono presto a intrattenere rapporti con i Greci che approdavano li sulla rotta per la colonia di Marsiglia e poi con i Romani con i quali si allearono da subito. Grazie a questo gli antichi genovesi godevano di un tenore di vita molto più alto di quello dei vicini, ma quest'amicizia fece anche si che la città venisse distrutta durante le guerre puniche (mentre le tribù vicine si allearono con i cartaginesi contro Roma). In ogni caso, la città venne ricostruita con l'aiuto di Roma e godeva di molti privilegi, mantenendo una posizione predominante sulle altre tribù dell'entroterra. Quando i romani definitivamente sconfisse queste ultime e costruì nel 148 a.C. la Via Postumia che collegava Genova a Libarna e quindi con la Gallia Cisalpina, ricominciarono i dissidi tra le popolazioni dell'entroterra, in particolare con i Viturii, ai quali i Romani avevano confiscato le terre e poi in parte ridate a Genuati e in parte rimesse in cambio di tributi. L'incremento della popolazione dei Viturii Langenenses li aveva ora spinti ad occupare le terre più in basso per la coltivazione dei campi e così erano aumentate le tensioni, tanto che i Genuati avevano anche imprigionato alcuni vicini. La cosa molto interessante è che con la sentenza i Romani non imposero la loro legge in territorio ligure, ma fecero valere con la loro autorità il rapporto tra Genova, città ancora autonoma e le comunità liguri ad essa soggette con la definizione di confini definiti.

Nomi Liguri:
Attraverso questo testo latino siamo venuti a conoscienza dei primi nomi di persone Liguri di cui si abbia notizia in quanto presenti al processo Moco Meticanio, figlio di Meticone e Plauco Pelianio, figlio di Pelione, probabilmente adattati alla lingua latina ma accurati. Si riconoscono chiaramente i suoni tipici della lingua ligure e celtiche continentali "gl." in Pelianio e Pelione, riscontrabile oggi in Pegli e "gn" in Meticanio e Pelianio che con ogni probabilità indicava "Il figlio di". Entrambi i suoni sono rintracciabili ancora oggi in tanti nomi con particolare incidenza nell'Italia nord occidentale, in Francia e in Spagna (la doppia L di Bastille - Bastiglia). 


Le terre interessate dalla disputa:
Non è facilissimo identificare esattamente la zona di cui parliamo in quanto i nomi di fiumi e monti sono quelli usati dai Liguri più di 2000 anni fa e non coincidono quasi mai con quelli attuali  (vedi paragrafetto sotto). La tesi più accreditata indica la Val Polcevera e i territori oggi occupati dai comuni di  Campomorone, Mignanego, Ceranesi, Fraconalto e il quartiere genovese di Pontedecimo. Due dei cippi posti a seguito della sentenza sono stati identificati: uno (foto sopra) si trova a poca distanza dalla S.P. dei Piani di Praglia e corrisponde al Mons Lemurinus del testo. L'altro è stato sommerso nel lago artificiale della Busalletta.

I luoghi nominati riconoscere i toponimi liguri:
Questa tavola ci permette anche di conoscere i nomi liguri di alcuni fiumi, torrenti e monti che non è facile identificare oggi. Come abbiamo visto sopra il Mons Lemurinus è stato identificato tramite il monolite che ancora oggi si può vedere. Il Monte Boplo sarebbe il Monte Taccone e il Monte Tuledon sarebbe il Monte Leco di oggi. E' notevole poter identificare il villaggio fortificato (castellaro) dei Viturii Langenses che senza dubbio oggi è proprio Langasco con il comunissimo suffisso gallico *asco che indica i paesi che sorgono sui fiumi (VEDI LINK).

Langasco (frazione di Campomorone) un tempo castellaro dei Viturii Langenses.

Tra i fiumi vengono indicati (in ordine di testo):

"Il fiume Ede";
"il rivo che nasce dalla fonte in Manicelo" identificato con il rio Gioventina.
"Il fiume Lemuri" identificato con il torrente Verde.
"il rivo Comberanea" identificato con il rio Rizzolo. ("rivo che porta alla confluenza" (P.S.) (P) (T). Infatti a Isoverde convergono tre corsi d'acqua che all'età della Sentenza formavano il flovio Lemuri.)
"Il fiume Procobera o Porcobera" identificato con il torrente Ricò.
"Il rivo Vindupale" con il rio Riasso.
"il fiume Neviasca" con il rio di Paveto.
"Il rivo Vinelasca" col vallone a Sud di Mignanego.
"Il fiume Veraglasca" identificato con il Torrente Lemme.
"Il fiume Tulelasca" con il Rio Busalletta.
"il rivo Eniseca" identificato con il Rio dei Giovi. (A "rivo Eniseca" è attribuito il significato di "rivo che incide la montagna").


Il Monte Leco (Monte Tuledon), facilmente riconoscibile per le numerose antenne.

Tra i monti vengono indicati (sempre in ordine di testo):

"Il Monte Lemurino" identificato con il Monte Lavergo.
"Il Monte Procavo" identificato con il Monte Pesucco.
"Il Monte Giovenzione" identificato con il Quota 1005 m
"Il Monte appennino che si chiama Boplo" oggi identificato con il Taccone, si parla già di "appennino" riferibile ovviamente a "penn" (picco, altura, sommità o anche "alpeggio" in lingua celtica o riferibile alla divinità delle alture Penn).
"Il Monte Tuledone" oggi identificato con il Leco. (A "monte Tuledone" è dato il significato di "cima tondeggiante" (P.S.), che ben si addice al profilo del monte Lecco, visto sia dalla cresta di confine che sale al monte Taccone, sia dalla media Valpolcevera (Rivarolo, Bolzaneto).
"Il Monte Berigiema"
"Il Monte Claxelo" (Mons Claxrelus) identificato con il Monte Ranfreo.
"Il Monte Prenico" con il Ventoporto.

Altri luoghi:

"La convalle Ceptiena" (Alla "Comvalis Caeptiema" è attribuito il significato di "convalle": "avvallamento che mette in comunicazione due valli", (P.S.). U sito dove oggi sorge Pietralavezzara è un avvallamento che mette in comunicazione le valli di Isoverde e Mignanego.)
"Il Giogo Lemurino"
"Il Giogo Blustiemelo"
"La fonte Lebriemela" (Fons Lebriemelus) identificata con la Fonte a Ovest del Ranfreo.
"La fonte in Manicelo" identificata con la sorgente a occidente di Madonna delle Vigne.
"Il Castello Aliano" identificato con il Bric di Guana.
"La Confluenza Ede-Porcobera" identificata con la Confluenza Verde-Ricò.

*Giogo: sommità allungata di una montagna.

Le popolazioni nominate:

I Genuati: la popolazione che fondò Genova.
I Viturii Langenses (o Viturii o Langensi): la tribù in contesa che aveva centro a Langasco (frazione di Campomorone, GE)
Gli Odiati.
I Dectunini (o Dertonini): altra tribù celto-ligure che fondò il primo nucleo di Tortona (AL) in Piemonte su cui i Romani fondarono appunto Dertona.
I Cavaturini: la popolazione che aveva il suo castellaro nel luogo in cui oggi sarge appunto Cavatore (AL) in Piemonte.
I Mentovini.

Come dicevamo all'inizio è incredibile quante informazioni ci giungano attraverso questo testo su popolazioni di cui generalmente si pensa di non sapere assolutamente niente e delle quali, se non fosse per ritrovamenti rarissimi di questo tipo, non conosceremmo nemmeno i nomi. 


LINKS:
pagina dedicata molto completa su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Tavola_bronzea_di_Polcevera


*************ricopio qui il testo della pagina http://www.altavallepolcevera.com/index.php/storia-valpolcevera/slideshow oggi sparita dalla rete:************


Origine della controversia

Nella seconda metà del II sec. a.C., Genova era città federata a Roma e la comunità rurale dei Langensi era sotto la sua giurisdizione ed amministrazione. Nel contesto socio-economico del tempo le terre arabili, i prati, i pascoli, i boschi erano più di oggi essenziali per la vita delle popolazioni rurali. I Langensi rivendicavano vari confini di tali terreni e una diversa normativa d'uso che i Genuati, forti della loro preponderanza, non erano disposti a riconoscere. In particolare, con lo sviluppo dei traffici marittimi e terrestri, delle costruzioni navali, i Genuati tendevano a privilegiare lo sfruttamento dei boschi. Per contro i Langati avevano interesse a sviluppare le culture prative che la vicinanza della via Postumia rendeva proficue per lo smercio del fieno.

La contesa raggiunse una fase acuta; contrasti e disordini divennero pericolosi per la sicurezza pubblica, tanto che i fatti vennero deferiti al supremo tribunale di Roma. La delicata posizione geo-politica del territorio langense, attraversato dalla via Postuinia, arteria di preminente valore strategico, richiedeva vigilanza di popolazioni in pace fra loro. Ciò indusse i Consoli ed il Senato romani ad intervenire.

La controversia verteva attorno ai limiti fra i terreni privati e quelli pubblici, nonché sulle norme d'uso degli stessi da parte dei Genuati e dei Langati. Tali tipi di problemi, ancor oggi, si risolvono solo sul posto. Così nell'anno 637 di Roma (117 a.C.) giunsero a Langasco due noti magistrati romani: Quinto e Marco Minucio Rufo, con i loro tecnici e assieme ai legati genuate e langense: Moco Meticanio e Plauco Pelanio fecero una minuziosa ispezione del territorio, composero la controversia e impartirono le disposizioni per la sistemazione dei termini confinari.

Tornati a Roma i magistrati dettarono la sentenza che fu resa per decreto del Senato il 13 dicembre dell'anno 637 di Roma, alla presenza dei legati delle due parti. Il testo fu inciso su lastra di bronzo la cui matrice rimase presso il Senato nel Tabularium o sanctuarium Caesaris, mentre due copie furono consegnate ai contendenti. Una di tali copie è quella rinvenuta ad Isola di Pedemonte in Valpocevera nell'anno 1506.

I confini

Il contenuto della Sentenza, scritta in lingua latina, oltre alle norme sulla proprietà, possesso ed uso dei terreni di cui diremo più oltre, stabilisce i confini del territorio controverso. Proprio la parte del testo riservata ai confini è la più difficile da interpretare, tanto che i numerosi tentativi di identificazione compiuti dagli studiosi non coincidono. Leggendo il testo della Sentenza si apprende che i confini seguono corsi d'acqua, dorsali e contrafforti montuosi, inoltre, i termini sono fissati in punti caratteristici come cime, fonti, confluenze e attraversamenti di corsi d'acqua. Perciò una ricostruzione topografica attendibile deve tener conto principalmente degli elementi di oro-idrografia insiti nel testo della Sentenza, confrontati col territorio dell'epoca, ricostruito retrospettivamente sulla scorta delle fonti scritte e paleoambientali.

Ciò non è ancora sufficiente se si trascurano le normative dei compilatori: gli Agrimensori romani. Questi usavano una terminologia latina ben precisa, descritta nei loro codici, il cui corpus è riportato in scritti di più autori antichi.

Tenendo conto di quanto sopra è possibile ricostruire, partendo da dati non arbitrari e prescindendo da analisi linguistiche, i confini del territorio oggetto della Sentenza.

L 'agro privato

E' conveniente iniziare dall'agro privato perché per esso si hanno subito disponibili dati sicuri. La particolare forma di quest'agro, ricavabile dal testo della Sentenza, è limitata da corsi d'acqua appartenenti ad un solo bacino idrografico, inoltre il territorio è posto "a cavallo" della via Postumia. Ciò, a confronto col terreno, non lascia dubbi sulla precisa identificazione del centro dei Langensi con l'attuale territorio di Langasco. Si ottengono così le seguenti corrispondenze.

Flovio Porcobera col torrente Ricò;
Flovio Lemuri con l'alto corso del torrente Verde;
rivo Comberanea col rio Rizzolo;
rivo Vindupale col rio Riasso;
rivo Neviasca col rio di Paveto;
rivo qui oritur ab fonte in Mannicelo col rio Gioventina;
fonte in Mannicelo con la sorgente a occidente di Madonna delle Vigne;
rivo Vinelasca col vallone a Sud di Mignanego.

I confini dei terreni riconosciuti privati sono perciò i seguenti. Dalla fonte situata a 150 m. ad Ovest della cappella della Madonna delle Vigne, il confine scende lungo il rio affluente del rio Gioventina e per lo stesso scende fino al torrente Verde, in un punto oggi riconoscibile perché è di fronte alla sede del Comune di Ceranesi. Qui era posto il primo termine. Poi il confine risale il Verde ed il rio Rizzolo fino a Pietralavezzara. Qui erano posti due termini a cavallo della via Postumia. Da Pietralavezzara il confine scende direttamente nel rio Riasso e per esso va nel rio di Paveto che segue fino al torrente Ricò. Quindi il confine scende il Ricò fino ad incontrare, a destra, il rio che proviene da Madonna delleVigne. Qui era posto un termine. Poi il confine risale il rio fino alla cappella del valico dove erano posti due termini a cavallo della via Postumia. Infine scende fino alla fonte dove era partito. Il territorio entro tali confini include: la conca di Langasco, la località Campora, parte di Campomorone, parte di Pietralavezzara e Mignanego. Questi terreni furono riconosciuti di proprietà delle famiglie della comunità, esenti da canone, vendibili e trasmissibili agli eredi.

L 'agro pubblico

Disponendo di dati sicuri sul circuito di confine dell'agro privato è stato possibile ricostruire anche l'estensione dell'agro pubblico. A differenza dell'agro privato, i cui confini sono segnati quasi esclusivamente da corsi d'acqua, per l'agro pubblico sono i crinali montuosi a prevalere, particolarmente nella parte centrale del circuito. Solo il tratto iniziale e i due tratti finali seguono l'idrografia.

Anche per l'agro pubblico è stato possibile individuare una particolare forma fisica che a confronto col terreno ha dato una sola possibilità di identificazione.

Conseguentemente si sono stabilite le seguenti corrispondenze:
- Confluenza Ede-Porcobera Confluenza Verde-Ricò
Mons Lemurinus infumus Località Pontasso
Mons Lemurinus Monte Lavergo
Mons Pocavus Monte Pesucco
Mons Lemunnus summus Poggio "il Termine"
Castelus Alianus Bric di Guana
Mons Joventio Quota 1005 m
Mons Apenninus Boplo Monte Taccone
Mons Tuledo Monte Lecco
Flovio Veraglasca Torrente Lemme
Mons Prenicus Ventoporto
Flovio Tulelasca Rio Busalletta
Mons Claxrelus Monte Ranfreo
Fons Lebriemelus Fonte a O. del Ranfreo
Rivo Eniseca Rio dei Giovi
Flovio Porcobera Torrente Ricò

Pertanto, il confine di tale agro, partendo da Pontedecimo, segue il torrente Verde fino al Pontasso, risale il contrafforte a sinistra, toccando il monte Larvego, il monte Pesucco, sino al poggio detto "il Termine", sullo spartiacque Polcevera Gorzente. Quindi piega a destra per detto spartiacque toccando il Bric Roncasci, il Bric di Guana, la quota 1005 m e il monte Taccone sullo spartiacque dei Giovi, che poi segue sino al monte Lecco. Da questo punto scende la costa a Nord sino al letto del torrente Lemme, lo attraversa, per poi guadagnare in salita la quota 815 m sopra Ventoporto. Da questa cima pianeggiante, il confine scende per la costiera di case Freccie fino al rio Busalletta. Attraversato il rio Busalletta, il confine sale il contrafforte a Sud sino al monte Ranfreo sullo spartiacque dei Giovi.

Dal monte Ranfreo scende direttamente alla sorgente ove parte l'attuale acquedotto di Fumeri e per il rio dei Giovi giunge alla confluenza del torrente Ricò a Ponterosso. Infine per il Ricò raggiunge Pontedecimo.

Lungo il circuito erano posti 15 termini come mostrato dalla carta il territorio include:

Larvego, Caffarella, Isoverde, Gallaneto, Cravasco, Paveto, Fumeri, Costagiutta, Cesino e parte di Pontedecimo. Questi terreni erano aperti all'uso precario tanto dei Langensi quanto dei Genuati per concessione dell'Assemblea langense. I terreni pubblici, a differenza di quelli privati, erano soggetti alla corresponsione di un canone stabilito.

Corrispondenze tra individuazioni topografiche e analisi linguistiche

Una acquisizione apportata alla ricostruzione topografica, riguarda la più precisa corrispondenza tra le nostre individuazioni e le analisi linguistiche compiute dagli specialisti sui toponimi della Sentenza.

I luoghi individuati lungo i confini, associati ai relativi toponimi della Sentenza, hanno ciascuno caratteristiche geomorfologiche diverse. In alcuni casi, tali caratteristiche, mostrano sensibili corrispondenze, anche se, sul significato di quel toponimo non sempre vi è accordo tra gli studiosi. Vediamo alcune corrispondenze significative.

Al "monte Procavo" e stato attribuito il significato di "monte che si affaccia sulla cavità" (P.S.). Ciò corrisponde perfettamente alle caratteristiche del monte Pesucco luogo del IV termine confinario dell'agro pubblico.

Ad "apenninum" si da il significato di "cresta sommitale" (T), oppure di "alpeggio" (P.S.).

La prima versione corrisponde perfettamente alle caratteristiche del tratto di cresta fra il monte Taccone ed il monte Lecco (tratto più elevato dell'intero circuito dell'agro pubblico), posto tra l'88 ed il 98 termine confinario.

A "mons Boplo" è attribuito il significato di "altura" (D. e P.S.), il che corrisponde alle caratteristiche del monte Taccone, il quale oltre ad emergere vistosamente dalla cresta, è anche il monte più alto della Valpolcevera e di tutto il sistema orografico descritto dalla Sentenza.

A "monte Tuledone" è dato il significato di "cima tondeggiante" (P.S.), che ben si addice al profilo del monte Lecco, visto sia dalla cresta di confine che sale al monte Taccone, sia dalla media Valpolcevera (Rivarolo, Bolzaneto).

A "rivo Eniseca" è attribuito il significato di "rivo che incide la montagna" (T., P.S., P.) ed in realtà il rio dei Giovi, da noi identificato con l'Eniseca, ha attualmente profili trasversali più profondi rispetto agli altri corsi d'acqua richiamati dalla Sentenza. Non vi è ragione di pensare a cambiamenti vistosi di tali profili dall'epoca della Sentenza ad oggi. La maggior incisione dell'alveo è tale anche a confronto con corsi d'acqua vicini scorrenti in termini di analoga composizione litologica. Si può quindi pensare che il letto profondo del rio dei Giovi, derivi dall'antica impostazione morfologica unita all'erosione superficiale successiva dovuta all'abbondanza non solo della "fons Lebriemela", ma anche delle sorgenti circostanti.

A Ponterosso è localizzato il toponimo Ricò. Ricò deriva da "rivi caput" cioè, "punto d'origine di un corso d'acqua". Fu introdotto dagli Agrimensori romani per indicare il punto di confine (P.S.). Infatti a Ponterosso è posto il 150 termine dell'agro pubblico secondo la nostra ricostruzione.

Alla "Comvalis Caeptiema" è attribuito il significato di "convalle": "avvallamento che mette in comunicazione due valli", (P.S.). U sito dove oggi sorge Pietralavezzara è un avvallamento che mette in comunicazione le valli di Isoverde e Mignanego.

Al "rivo Comberanea", attuale rio Rizzolo, è dato il significato di "rivo che porta alla confluenza" (P.S.) (P) (T). Infatti a Isoverde convergono tre corsi d'acqua che all'età della Sentenza formavano il flovio Lemuri.

Caratteristiche del territorio

La ricostruzione sopra delineata porta nuove acquisizioni anche per la conoscenza del territorio e delle risorse disponibili. Anzitutto l'estensione. Esso misura complessivamente 4100 ettari di cui 700 per i terreni privati. Inoltre, contrariamente a quanto si è sempre creduto, i terreni non superano, ad oriente, la linea del torrente Ricò e a Nord invece scavalcano lo spartiacque dei Giovi, includendo un'ampia area a vocazione forestale.

Ancora: il Castelus Alianus non risulta situato sullo spartiacque dei Giovi presso la via Postumia, come è sempre stato sostenuto, ma sorgeva sul Bric di Guana, sullo spartiacque occidentale, nei pressi del valico per Marcarolo. Ciò può far pensare che già nell'epoca della Sentenza erano importanti non una ma due direttrici viarie: quella per Libarna-Tortona e quella per Marcarolo-Asti.

Come è facile capire dalle descrizioni precedenti il territorio è esclusivamente montano con dorsali e contrafforti dai versanti a pendenze variabili, con ripiani a mezza costa non numerosi e di superficie contenuta. Tuttavia, la apparente carenza di aree pianeggianti è compensata dalla morfologia dolce delle aree alle quote intermedie dove in realtà si è sviluppato l'insediamento.

Se si confronta il territorio definito dalla ricostruzione topografica con una carta geologica si ricava che i terreni dell'agro privato sono concentrati in un area a substrato argilloscistoso-filladico, caratteristico per lo sviluppo di suolo profondo e fertile che, nelle esposizioni favorevoli, è indicato per attività agricole di buon rendimento. Inoltre il tipo di roccia poco permeabile consente la presenza di un rilevante numero di sorgenti.

Nei terreni dell'agro pubblico predominano ad Ovest le serpentiniti, poco favorevoli allo sviluppo di vegetazione arborea, ma idonee all'instaurazione di formazioni erbacee utili per il pascolo. Anche nell'area di monte Carlo e del rio d'Iso, dove predominano rocce carbonatiche, aride per la circolazione carsica e povere di suolo, può svilupparsi il pascolo magro.

Nell'area attorno al monte Lecco, dominano i metagabbri, i quali pur essendo poco erodibili, producono suolo sufficiente per lo sviluppo di coperture boschive. Infine ad oriente, dove predominano i flyshs cretacei, i suoli sono adatti per tutte le culture.

Occorre inoltre ricordare la presenza di ricchi corsi d'acqua interni e di confine come il Verde, il Lemme, il Busalletta, il Ricò, sfruttabili per l'esercizio della pesca.

Queste sono le risorse ambientali disponibili. Dalla Sentenza possiamo ricavare le risorse economiche che la comunità ha saputo produrre con le tecniche e le attrezzature che possedeva.

Attività e tecniche agricole

La Sentenza ci documenta alcuni prodotti che attestano l'utilizzazione di tutte le risorse disponibili. Anche se il riferimento è solo per l'agro pubblico ciò non esclude che cereali e vite fossero coltivati anche nell'agro privato. Anzi è proprio nell'agro privato che si sono attuate le prime coltivazioni.

Si può pensare che il podere famigliare si costituiva in prossimità dell'abitato con orti, frutteti, vigneti, seminativi e prati e col tempo andava espandendosi utilizzando i terreni più adatti, tanto da occupare aree relativamente distanti dall'abitato come documentato dalla Sentenza.

Tale sviluppo era dovuto al fatto che da tempo le tecniche agricole avevano beneficiato dell'introduzione degli attrezzi in ferro (zappa, vanga, aratro, falce fienaia), tanto che ciò ha reso possibile non solo la produzione per la sussistenza, ma anche la formazione di un sovraprodotto per la corresponsione del canone ai Genuati.

E' implicito nei campi l'impiego delle rotazioni biennali (un anno a cereali, un anno a riposo lavorato), diffuso da tempo in tutta Italia. E' noto che la rotazione ha lo scopo di ripristinare la fertilità del terreno e di riutilizzare il campo l'anno successivo al riposo. Questo non si può ottenere con la tecnica del debbio. Circa i cereali coltivati, è sicuro, l'abbandono dei cereali locali (miglio e farro) a favore di quelli orientali come il frumento. Ce lo documenta la Sentenza.

Non sappiamo se nell'anno del riposo lavorato si impiegassero piante rigeneratrici come le leguminose, note per il loro potere fissatore dell'azoto nel terreno, però l'archeologia documenta, per la Liguria di Levante, culture di favino e pisello in età preromana.

Anche lo sviluppo dei prati, così esteso da impegnare l'agro pubblico, è favorito dall'avvento degli attrezzi in ferro. La falce fienaia è praticamente nata con l'introduzione del ferro. Essa ha prodotto un notevole incremento della foraggiatura.

I prodotti dell'agricoltura erano integrati dall'allevamento ovi-caprino sui terreni compascqui (pascoli comuni). L'agro compascuo, comprendeva oltre ai pascoli anche i boschi dai quali sia i Genuati sia i Langensi potevano trarre legna da ardere e da costruzione. Alle aree compascuali appartenevano anche i corsi d'acqua nei quali si poteva esercitare il diritto di pesca. L'indronimo ligure Porcobera, secondo i linguisti, significa "fiume portatore di trote".

L'esercizio della caccia non è documentato, ma dalla preistoria ad oggi l'uomo non ha mai cessato di cacciare. Nel territorio, al tempo della Sentenza, non mancavano cinghiali, cervi, daini, caprioli, lepri, pernici rosse, starne, per citare solo le specie più comuni.

Cenno al contesto socio-economico

Che la produzione fosse ben al di sopra della sussistenza ci é documentato dalla Sentenza dove si afferma che la corresponsione di un canone in natura (1/20 di frumento e 1/6 di vino), oppure in denaro (400 vittoriati). Perchè una comunità possa permettersi una corresponsione del canone in denaro, è necessario che abbia sviluppato da tempo forme di commercio ben consolidate e un ente centrale di coordinamento per la riscossione di canoni singoli.

Si delinea allora, fra i membri della comunità, una diversificazione di compiti rispetto a quelli propri della produzione e la necessità di una organizzazione del lavoro. Accanto agli agricoltori operavano i commercianti, gli addetti ai trasporti, i coordinatori. L'organizzazione produttiva, non solo doveva essere in grado di accumulare il sovraprodotto destinato allo scambio ed al commercio, ma reciprocamente doveva garantire la ridistribuzione di quanto ricevuto dallo scambio alla popolazione e la corresponsione all'erario di parte dei ricavati del commercio.

In queste condizioni siamo di fronte ad una vera e propria gestione e mobilizzazione delle risorse. Si può allora parlare non di sussistenza ma di economia. Inoltre ciò implica nell'organizzazione una qualche forma di leader-ship permanente. Ecco allora il delinearsi di un tipo di società non più egualitaria come per una comunità tribale, ma una comunità in evoluzione verso una forma di organizzazione superiore. Ad attestarlo è la stessa Sentenza quando afferma che gli occupanti dell'agro pubblico sono chiamati a corrispondere alla comunità un canone pro portione (linea 29). Tale incipiente differenziazione sociale all'interno della comunità rappresenta il primo passo verso una differenziazione di poteri fra individui. Poteri che non hanno ancora efficacia sulle decisioni della comunità perché in essa permane l'istituto politico supremo dell'Assemblea Popolare dove si delibera de maiore parte (linea 30), cioè a maggioranza di suffragi.

Le comunità nominate nella Sentenza erano legate all'oppido Genuate da rapporti particolari di subordinazione, sviluppati da tempo in virtù della posizione preminente di Genova come "emporio dei liguri". (20) Ciò è attestato dalle fonti scritte e dalle fonti archeologiche. Nella Sentenza la subordinazione è palese per più ragioni. Anzitutto l'imposizione del canone, che sancisce possesso e uso dell'agro da parte dei Langensi, ma dominio da parte dei Genuati. Inoltre, mentre i Genuati possono occupare appezzameriti dell'agro pubblico da parte dei Langensi, nessun cenno appare, nella Sentenza, di analogo reciproco diritto dei Langensi sull'agro pubblico di Genova. Genova appare in posizione egemonica nei confronti delle comunità circostanti. Infine, la Sentenza ci attesta che i Genuati, nel corso della controversia coi Langensi, hanno "giudicati, condannati ed imprigionati" alcuni membri di quest'ultima comunità (linea 43). Tale fatto testimonia anche dell'esistenza in Genova di un apparato repressivo, inesistente presso le comunità circostanti. La presenza di una forza pubblica è l'elemento principale che distingue l'organizzazione sociale statale dall'organizzazione sociale primitiva delle tribù gentilizie e delle tribù territoriali. Presenza che diventa necessaria quando la società è spiccatamente differenziata, costituita da classi diverse, inevitabilmente in lotta tra loro.

Anche a Genova l'intensificazione dei traffici, dei commerci e dell'artigianato ha contribuito allo sviluppo della comunità verso una forma di società più complessa, che all'epoca della Sentenza ci appare, anche se in modo embrionale, avviata verso forme di tipo statale.

Con la Sentenza il rapporto di subordinazione dei "castellani" Langensi nei confronti degli "oppidani" Genuati è confermato, se non consolidato, dal Senato romano.

Conclusioni

Concludendo si può affermare che la Tavola di Polcevera ci documenta una Genova che, verso la fine del II sec. a.C. ci appare in piena evoluzione. Essa è in grado di controllare le vie di comunicazione necessarie ai suoi commerci, tenendo in rispetto le popolazioni interne, con energia, ma senza soffocarne la particolare e privata autonomia. Non è nel suo interesse, né nel temperamento dei Liguri. La Tavola ci documenta altresì un Genovesato in lenta evoluzione, con economia non solo agro - silvo - pastorale ma, con commerci, tuttavia conservativo di antichi ordinamenti, che non tollerano usurpazioni dell'agro pubblico da parte dei più ricchi o dei più potenti. Ciascun individuo doveva pagare alla comunità il proprio canone come tutti gli altri, indipendentemente dallo status personale, come sancito dall'Assemblea Popolare, supremo istituto politico ancora integralmente conservato ed ereditato dall'antica Organizzazione gentilizia.


sabato 25 settembre 2021

Il Dialetto Alessandrino, se resta qualcosa.

Questo è un breve post sul dialetto alessandrino, che, come gli alessandrini stessi, è ormai quasi scomparso. In quanti sanno parlare in dialetto in quella città? Oggi quasi nessuno, in pochissimi riescono a capirlo ed è limitato a qualche libro di nicchia e a studiosi ormai in gran parte anziani. Non succede solo nella città piemontese, ma da quelle parti la situazione è particolarmente grave. E' delicato parlare di questo tipo di argomenti che finiscono sempre per richiamare questioni identitarie e campanilistiche della peggior specie, tuttavia penso che lo scomparire di un dialetto sia il sintomo di una cultura che sparisce e, se la cosa è ormai inevitabile, sia giusto almeno cercare di documentarne alcuni caratteri.

L'Alessandrino è un dialetto orientale della lingua Piemontese, appartiene al gruppo dei dialetti monferrini ed è influenzato dal Lombardo e dall'Emiliano (che fanno parte della stessa famiglia delle lingue galloromanze dell'Italia settentrionale). Al contrario di quanto si legga ogni tanto, non ha alcuna influenza ligure (lo ha solo nella parte sud della provincia, culturalmente ligure) e, a differenza del dialetto Tortonese e delle parlate dei paesi ad est del capoluogo, l'Alessandrino resta uno dei dialetti della famiglia Piemontese.

Perché parliamo dell'Alessandrino? Perché questo dialetto conserva (o sarebbe meglio dire conservava) alcune caratteristiche che rimandano a periodi ancestrali precedenti alla latinizzazione: ad esempio la pronuncia resta più vicina a quella francese che a quella italiana e questo rende, tra l'altro, la trascrizione delle parole molto difficile. Un suono che contraddistingue la parlata locale ad esempio è quello della "R" che ritroviamo anche in altre zone del Piemonte e del nord Italia ma che non è tipico di tutta la lingua piemontese. In alcuni casi è detta "R" moscia dai connazionali, ma in realtà si tratta della "R francese" in cui il suono viene emesso senza "arrotare". Anche il modo in cui si pronunciano le vocali avvicina la parlata alessandrina a quella francese: La A generalmente viene chiusa come proprio nel caso del nome della città. Se in Piemontese si dice (A)Lissandria, localmente si la "A" centrale si chiude diventado quasi una "O" infatti generalmente si trascrive "Lisondria" con una S sola tra l'altro.
La stessa cosa succede con la "U" che si chiude e si legge come quella del Francese "Une" o con la "I" che invece sembra ad una E. Ma non essendo io un esperto linguista mi fermo qui e rimando ad approfondire su testi accademici, in ogni caso queste influenze sono antiche e non vanno ricercate nel periodo napoleonico in cui Alessandria, ma anche l'intero Piemonte erano in territorio francese (1800-1815) e in cui addirittura le strade della città avevano nomi francesi, ma nell'origine della lingua, che a differenza per esempio del torinese, ebbe a livello popolare, una minore influenza italiana e conservò questi suoni.



Il piemontese fa parte della famiglia delle lingue galloitaliche (come il Lombardo, l'Emiliano, ecc...) che a loro volta fanno parte della famiglia galloromanza (insieme alle lingue Occitane,
lingue d'oïl, le lingue franco-provenzali e quelle retiche, vedere la mappa sopra). Questa grande famiglia si differenzia dalle altre lingue romanze per il persistere di alcuni caratteri celtici nella parlata latina. E' facile infatti vedere nella mappa di qui sopra un sovrapporsi con i territori occupati dalle Gallie nel periodo romano. La Gallia Transalpina, Narbonense, ecc... in quella che oggi è la Francia, la Gallia Cisalpina in quella che oggi è l'Italia del Nord.

Ma torniamo all'Alessandrino, sono molti i termini in comune con il francese, pensiamo a Sortì per uscire o ai nomi di verdure e frutti, ma ce ne sono alcuni particolarmente significativi e unici che differenziano questo dialetto dal Piemontese e lo rendono unico. 

La parolo "Ghin" (si legge Ghèn nasale, italianizzato in Ghino) vuol dire Maiale e si differenzia dal piemontese "Crin". Il termine si ritrova solo in alcuni dialetti locali nella zona germanofona dell'Alsazia e del Baden-Württemberg il che testimonia un'origine precedente al periodo latino e tedesco, ovviamente, e fa risalire il termine ad un'origine celtica o proto-celtica. Un'altro termine è "Mata" che significa ragazza e che troviamo soltanto in altri dialetti dell'area romancia in Svizzera e che anche in questo caso testimoniano un'origine precedente alla latinizzazione.  

Vi rimando in oltre alla pagina Wikipedia dedicata: https://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto_alessandrino
 che incollo qui sotto:

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Alessandrino
Lissandren
Parlato in Italia
Parlato in Alessandria (eccetto Novese, Ovadese, Casalese e Tortonese)

Tassonomia
Filogenesi Lingue indoeuropee
Romanze
Galloromanze
Galloitaliche
Piemontese
Dialetto alessandrino
Manuale


Il dialetto alessandrino (lissandren) è una varietà della lingua piemontese parlata in parte della provincia di Alessandria.


Indice
1Descrizione
2Brano in alessandrino
3Note
4Bibliografia
5Voci correlate
Descrizione[modifica | modifica wikitesto]

Sul dialetto alessandrino esiste una discreta documentazione storica relativa a poeti e scrittori in vernacolo. Importanti, anche se non numerosi, i personaggi alessandrini che nel corso dei secoli si espressero vernacolo. Alcuni amarono il genere letterario o meglio ancora il dialogo umoristico-satirico fin dal Cinquecento. Altri preferirono esprimersi scrivendo rime e composizioni in versi.

Caratteristica dell'alessandrino, che è un dialetto appartenente al gruppo orientale della lingua piemontese, è di differire in modo notabile dagli altri dialetti del Piemonte, in quanto maggiormente vicino alle varietà lombarde ed emiliane[1] (il continuum dialettale emiliano si estende infatti fino al Tortonese).

Per esempio: signore e signora vengono tradotti indistintamente come sciur e sciura tipici della lingua lombarda o come monsù e madamen tipici della lingua piemontese.
Brano in alessandrino[modifica | modifica wikitesto]

In òm l'éiva dói fiói.
Er pu giovo ëd sti fiói l'ha dicc a sò pari: “Papà, dami ra part dij ben ch'om toca!”. E lu o j'ha spartì e o j'ha dacc ra soa part.
E da léi a pochi dì, er fió pu giovo l'ha facc su tut e l'è andacc ant in pais lontan, e là l'ha sgarà tut er facc sò a fè der sbauci.
E quand ch'o n'èiva pu nént afacc, i è stacc 'na gran carestia ant col pais, e lu l'ha prinsipià a slantè par vivi.
E l'è andacc e o s'è antrodot an ca 'd jeun dij sitadin 'd col pais ch'o l'ha mandà a ra sò cassinna a fè ra vuardia ai ghén.
E bramava d'ampiss ra panza der giandori ch'i mangiavu ij ghén, e anseun a-j na dava.
Ma quand ch'l'ha vist o sò disingan, l'ha dicc: "O quanta gent 'd servissi an cà 'd mè pari, ch'i han der pan a uffa, e méi acsichì a ma mór dra fam!
L'è mèj ch'a m'àussa, e ch'a vaga da mè pari, e a-j dirò: Papà, méi a i hò mancà còntra o Sé e còntra téi
A 'n mérit gnanca pu d'essi ciamà tò fió. Tratmi 'mè ch'a fissa jeun d'o tò servissi".
E su ch'l'è stacc, l'è andacc da sò pari. Antratant ch'l'era ancora lontan, sò papà o l'ha vist e pijà da ra compassion o j'è cors ancòntra e o n'ha brassà er còl, e ol l'ha basà.
E is fió o j'ha dicc: "Papà, i hò mancà còntra o Sé e còntra 'd téi. A 'm mérit gnanca d'essi ciamà tò fió".
Er pari l'ha dicc ai sò servidor: "Prest, tiré fòra l'avstì pu pressios, e butèjli andòss, e mitij l'anel ant o dij e ij stivalèn ai pè.
E amnè chì er vidèl grass, e massèli, e ch'os mangia e ch'os staga alegrament.
Përché ist mè fió l'era mòrt e l'è risussità, o s'era pers e o s'è trovà". E léi i han prinsipià a fè 'n grand past e stèssni alégher.
Anlora er fió prim a l'era an campagna e quand ch'o tornava, e avzinàndsi a ra ca, l'ha santì ch'i sonavo e ch'i balavo.
E l'ha ciamà jeun dij servidor e ol l'ha interogà su ch'l'era su chì.
E l'àter l'ha rispòst: "L'é tornà a ca tò fradel e tò pari l'ha massà in vidèl grass përché ol l'ha ricuperà san e salv".
E lu l'é andacc an còlra e 'n voriva pu intrè drent; donca l'è surtì fòra er pari, ch'l'ha prinsipià a pregheli.
Ma lu a l'ha rispòst e l'ha dicc al sò pari: "L'è zà tancc ani che méi at serv, e a n'hò maj trasgredì jeun dij tò órdin, e 'n t' m'hai maj dacc in cravèt par ch'a 'm la godissa con ij mè amis.
Ma da dòp ch'o j'è avnì chì is tò fió, ch' l'ha divorà tut er facc sò con der doni 'mè si séja, t'hai massà par lu er videl grass".
Ma er pari o j'ha dicc: "Fió, téi t'èi sémper con méi, e tut col ch'a i hò méi l'é tò.
Ma l'era ben giust da fé in gran past e da fé festa përchè is tò fradel l'era mòrt e l'è risussità; o s'era pers e o s'è trovà".[2]

In questo brano si evidenziano tutte le differenze dell'alessandrino rispetto al piemontese standard (o koiné, dal greco antico, "lingua comune"):
-it e -ti a fine parola vengono pronunciati -cc, fenomeno molto diffuso sia nel piemontese orientale e meridionale che nel lombardo.
Alcune a del piemontese standard vengono pronunciate [ɔ] (scritte <o>) es.: Lissandria>Lissondria
L'articolo indeterminativo piemontese standard "ën" viene pronunciato [in]
Gli articoli determinativi singolari "ël" e "la" vengono pronunciati [er] e [ra] (tipico monferrino), oppure [ʊ] e [a] (influenza ligure).
La preposizione "për" viene pronunciata [par]
Le particelle che si assemblano in coda ai modi indefiniti dei verbi, che in koiné hanno varie finali (o,e), vengono pronunciate con la finale in "-i".
La seconda coniugazione e molte parole che nella koiné si scrivono terminanti per "-e" in alessandrino sono pronunciati terminanti per "-i".
mi (io) diventa [mɛj]; "ti" (tu) diventa [tɛi], "chiel" e "chila" diventano "lu" [ly] e "la", come in vercellese.
"lì" e sì" (lì e qui) del piemontese standard in alessandrino sono "lèi" [lɛj] (influenza emiliana) e "chì" [ki] (influenza lombarda).
I pronomi personali clitici del piemontese standard sono "i, it, a, i, i, a", nell'alessandrino diventano rispettivamente "a, it, o, -, -, i"
Il pronome personale clitico viene spesso eliso fra il che e il verbo che segue, come avviene anche in astigiano. (che a l'é > ch'a l'é > ch'l'é)
"già" diventa "zà" per un'influenza emiliana.
"pì" (più) diventa "pù", per un'influenza lombarda (pussee).
"un" [yŋ] del piemontese standard ("uno" inteso come numero e non come articolo indeterminativo) si pronuncia "jeun" [jøŋ].
La "n" faucale piemontese nelle parole femminili, viene sovente rimpiazzata da una doppia "nn". cassin-a>cassinna
Come in monferrino le finali in "-in" si aprono fino a diventare "-èn" (stivalin>stivalèn). bin [biŋ] (bene) viene pronunciato [bɛŋ].
Nel piemontese standard si dice "rëspondù", "vëddù", "corù", "perdù", "antrodovù" (regolari), mentre in alessandrino si usano (anche, ma non solo) gli irregolari "rëspòst", "vist", "cors", "pers", "antrodot". Questa caratteristica non è ammessa nella koiné.
L'aggettivo indefinito "ës" [әs] (questo) viene pronunciato [is].
Lessico tipico alessandrino:
ghèn: maiali; koiné: crin.
fió: figlio; koiné: fieul.
cincanta: cinquanta; koiné: sinquanta.
Tutte le variazioni diatopiche alessandrine elencate fino ad ora sono state circoscritte a pronuncia e lessico. La grammatica alessandrina ha due sole varianti rispetto a quella del piemontese standard, che non sono ammesse nella koiné:
La negazione può essere posta anche davanti al verbo come una 'n (es.: A 'n mérit gnanca pù d'essi ciamà tò fió, non mi merito neanche più di essere chiamato figlio tuo), ed è concesso il raddoppiamento della negazione ('n... gnanca), cosa che in koiné la annullerebbe di significato.
In koiné, quando si deve esprimere particelle dative, accusative, genitive o locative con i tempi composti di qualsiasi verbo, queste particelle vengono assemblate al participio passato. In alessandrino invece vengono assemblate al pronome personale clitico. Questa forma compare talvolta anche negli scritti in koiné. Non è scorretta, però è rara e ha un suono insolito, aulico o torbido a seconda del contesto.