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giovedì 17 aprile 2025

Il Bialbero di Casorzo: un ciliegio cresciuto su un gelso.

A poche centinaia di metri da Casorzo, il paese della Malvasia dolce nel cuore del Monferrato, c'è una meraviglia della natura: il Bialbero. Si tratta di un Ciliegio cresciuto su di un Gelso. Questo tipo di fenomeni naturali vengono chiamati "alberi epifeti" ma generalmente si tratta di piccole piante che riescono a sopravvivere per un breve periodo. La particolarità di questo "bialbero" è che entrambe le piante sono ben sviluppate e vivono da molti anni. Questo è possibile perchè, a causa dell'età del gelso, le radici del ciliegio hanno potuto svilupparsi in una cavità dell'albero ospite raggiungendo il terreno. 

Fino a pochi anni fa si poteva vedere il ciliegio spuntare dal gelso in mezzo ad un campo a pochi metri dalla strada, oggi, vista la notorietà acquistata, ai piedi della pianta in questione sono stati posizionate panche e tavoli in qui si può fare pic nic, fortunatamente tutto liberamente. Io lo preferivo nel suo ambiente naturale, ma per fortuna, in questo modo, il bialbero è stato protetto e viene curato.

Per raggiungere l'albero potete cercare direttamente "Bialbero" su google maps, oppure raggiungere Casorzo in bicicletta o in auto uscendo ad Alessandria est.

domenica 15 ottobre 2023

L'enigmatica pieve romanica di San Marziano a Viarigi (AT)

Un'altra pieve romanica, piccolissima ma notevole è quella di San Marziano che si trova a 3 km da Viarigi. Giace purtroppo in stato di semi abbandono e per raggiungerla bisogna percorrere un pezzo di strada sterrata, ma ne vale la pena.


STORIA: La notizia scritta più antica relativa al 1041 quando l’Imperatore Enrico III, nel confermare al Vescovo d’Asti il patrimonio della sua chiesa, include nell’elenco la corte di Viarigi con il castello e la cappella. Viene poi nominata ancora nel 1200 e Nel registro diocesano del 1345 San Marziano appare insieme con San Pietro e un’ altra chiesa che è nei boschi di Viarigi (qui est in boscis de Viarixio) non meglio specificata. Una quarta, infine, San Severio (oggi San Silverio), appartiene al monastero benedettino di Azzano. Fra tutte, San Marziano appare la meno dotata.



DESCRIZIONE: Il piccolo edificio dell’antica pieve è realizzato in blocchi di pietra da cantini locale, molto morbida, ma presenta una facciata in muratura rifatta purtroppo nel XVIII secolo e oggi in stato precario. L’abside è divisa in tre parti da due semicolonne con capitello scolpito. Gli archetti in pietra tioici del romanico locale, sono scolpiti e sono presenti tre monofore sormontate da altre decorazioni


LE DECORAZIONI: sono presenti numerose decorazioni, principalmente zoomorfe e alcune facce umane in stile romanico. Il numero di queste decorazioni è elevato per una chiesetta di queste dimensioni ed è uno dei motivi che la rendono unica. Tra le figure scolpite tra gli archetti ci sono un cane, una scimmia, un bue, un pesce, ci sono poi motivi floreali, astratti e alcune facce. 








LE INCISIONI: oltre alle sopracitate decorazioni scultoree sono presenti anche numerose incisioni superficiali alcune delle quali ricorrenti, ad esempio quello che potrebbe essere un ascia o un aratro:



Uno motivo che io non sono riuscito a decifrare o a riconoscere e del quale non ho trovato informazioni



Una triplice cinta (generalmente collegata addirittura ai druidi) e altri segni difficilmente comprensibili:


Sono presenti anche alcune iscrizioni:


Le incisioni e le decorazioni in queste foto sono solo alcune in quanto la chiesetta risulta davvero piena, se poteste aiutarci nei commenti qui sotto a comprenderle sarebbe vi saremmo riconoscenti!


CHIESE ISOLATE IN CAMPAGNA: il territorio del monferrato tra astigiano e alessandrino è pieno di chiesette romaniche isolate, cosa che si nota subito dopo averne visitate alcune (vedi SAN SECONDO in CORTAZZONE LINK) il motivo principale come si è già detto in altri post è il fatto che verso la fine del primo millennio queste zone erano ancora scarsissimamente abitate e coperte da selve veramente selvagge (silvae, sterminate foreste naturali) e da boschi (boscha) già soggetti a ceduazione per produrre legname. Con il finire delle incursioni ungare, saracene e normanne un po' in tutta Europa ci fu un miglioramento delle condizioni sociali, un incremento demografico che portò ad un allargarsi delle coltivazioni cerealicole e al pascolo con il formarsi di nuovi villaggi contadini e con l'allargarsi di alcuni di essi in veri e propri paesi. Fu allora che proliferò il sistema delle pievi e dei sentieri sacri che portavano i pellegrini a roma da tutta Europa. Gran parte degli edifici romanici che oggi costellano le colline, i bordi dei campi o si nascondono tra i pochi boschi rimasti nacquero come chiese di villaggio. edifici battesimali, tituli (chiese minori) molti dei quali sono tra l'altro andati perduti. Verso la fine del medioevo con una nuova instabilità politica, ci fu un nuovo calo demografico, una regressione agraria e una nuova espansione delle selve, la famosa crisi del 1300. I contadini abbandonarono villaggi e paesi che, fino a quell'epoca, erano costruiti in legno e malta di fango, materiali facilmete degradabili, di cui non ci è rimasto praticamente niente se non le chiese ed i cimiteri isolati che invece erano costruiti in solida pietra locale e mattoni, e che oggi quindi restano isolate e solitarie.


CHIESE IN CIMA ALLE COLLINE: Un altro caso molto interessante e che probabilmente interessa anche San Marziano è che le piccole chiese sorsero in luoghi dominanti in cima a colli e colline o che in passato avevano accolto le aediculae pagane (nota 1), mucchi di pietre rituali, gli ometti che vediamo sui sentierei di montagna e che ancora oggi in Piemonte vengono chiamati mongioie, da Mons Jovis o Monte di Giove, in quanto generalmente dedicate al dio romano delle alture Giove, con cui i romani avevano identificato molte divinita celtiche preromane come Pen ad esempio, dio delle vette. In questo caso San Marziano potrebbe riferirsi direttamente a un precedente culto dedicato a Marte come accade spesso, ma di questo non ci sono prove reali.

ORIENTAMENTO: La facciata (asse abside - facciata) della chiesa è precisamente orientata verso il tramonto del sole al 10 marzo. Considerando le imperfezioni di questo tipo di architettura e dei mille anni che probabilmente ha questo edificio è facile fare il collegamento con il 6 marzo giorno in cui si celebra San Marziano martire. Le misurazioni sono state effettuate il giorno 18/06/2006 dagli studiosi del Centro Ricerche Archeoastronomia Ligustica (LINK)

NOTE:
1) AEDICULAE: Cumuli di pietre con significato rituale religioso innalzate ai bordi dei sentieri prima dai galli che lo dedicavano a Bel o a Penn e poi dai romani che li dedicavano a Giove (Giove Pennino per l'appunto in area gallo romana) da qui Mont Iovis. Questi mucchi di pietre sopravvivono ancora oggi in maniera un po' superstiziosa e per indicare il sentiero sorgono sui bivi in montagna o in punti in cui è facile perdere di vista la strada. Essi sono molto simili ai muri mani tibetani o agli ovoo mongoli vedi LINK) e come si diceva ancora oggi vengono chiamati mongioie in Piemonte e ometti in Italiano.

LINKS:

domenica 26 marzo 2023

La Basilica di San Dalmazio a Quargnento.

La Basilica minore di Quargnento ho una storia molto lunga e interessante e custodisce importanti opere d'arte. Sorge nel centro del paese di Quargnento a pochi chilometri da Alessandria e ha una caratteristica facciata a fasce.

BREVE STORIA: Si hanno le prime notizie di una chiesa a Quargnento nel IX secolo e si hanno notizie certe nel X secolo quando nel 907 d.c. le reliquie di San Dalmazio vennero trasferite da Pedona per il pericolo delle scorrerie dei Saraceni che in quegli anni saccheggiavano il cuneese. La nuova chiesa venne consacrata nel 1111 da Papa Pasquale II, ma alla fine del secolo Federico Barabarossa, adirato per il fallimento dell'assedio di Alessandria, distrusse sia il castello che la chiesa del borgo. Il ritrovamento di una lapide testimonia che la ricostruzione della parrocchia iniziò nel 1270, mentre tra il 1560 e 1574 ci furono i lavori di ampliamento con le due navate laterali. Nel 1890 un gravissimo incendio distrusse il tetto della chiesa che venne restaurata tra il 1899 e il 1904, con la nuova facciata e i bellissimi affreschi in stile liberty.

QUARGNETO: il paese sorge a pochi chilometri da Alessandria e dalle sponde del Tanaro ai piedi delle colline del Monferrato, zona abitata già nella preistoria da diverse popolazioni tra i quali i celto-liguri Statielli. Le prime testimonianze scritte attestano un accampamento militare romano attorno al primo secolo avanti cristo, che serviva a contrallare le tribù locali. Il nome deriverebbe dal latino "Quadrigentum" e al periodo romano si deve proprio il primo nucleo sacro che diede origine all'odierna basilica.


IL TEMPIO DI DIANA: sul retro della chiesa proprio sotto al campanile si possono ancora oggi vedere delle grosse pietre che sono i resti di quello che in epoca precristiana era un tempio dedicato a Diana. Purtroppo le testimonianze scritte ed i reperti fino al periodo a cavallo tra i due millenni sono pochi, come del resto in tutta questa zona, altre pietre del tempio pagano si possono vedere anche più in altro sul campanile. Il tempio che probabilmente aveva una pianta circolare, venne trasformato in una primitiva chiesa in epoca cristiana che conservava la stessa forma. Al periodo barbarico e longobardo dobbiamo il bellissimo pozzo nel giardino interno, purtroppo visitabile soltanto in occasioni speciali.

LA CHIESA ROMANICA: la prima forma della chiesa attuale risale al periodo romanico, di cui oggi conserva solo la meravigliosa abside visibile, nella sua forma originale sul retro nel classico stile locale e una cripta purtroppo oggi murata.

LA PARTE SOTTERRANEA E IL CAMPANILE: Sotto la navata centrale esiste tuttora una chiesa sotterranea dove venivano seppelliti i defunti fino a circa metà ‘800. Sotto l’altare c’era sicuramente una cripta che originalmente prendeva luce dalle finestre ora visibili sul retro dell’abside (murate). Il campanile in muratura risale al 1500 e sulla sommità si trova un'interessante sistema campanario.


 AFFRESCHI ED OPERE DARTE NOTEVOLI: La cosa più particolare della chiesa, a mio moesto giudizio, sono gli affreschi e le decorazioni in stile "Liberty", cosa più unica che rara in un luogo del genere. A seguito dell’incendio propagatosi nell’interno della Chiesa il 20 novembre 1890 la chiesa viene restaurata ed affrescata dal 1899 al 1904 da Vincenzo Boniforti (Vigevano 1866-1904), che utilizzava come modelli per le sue opere le persone del paese, scegliendole tra le più caratteristiche.
Nella Chiesa sono conservate opere pregevoli: un trittico stemprato su legno di Gandolfino da Roreto, una terracotta di Francesco Filiberti. Un Crocefisso del 1500 in stile Genovese. Il pulpito é opera pregevole del 1600.









venerdì 11 novembre 2022

Un tributo al fiume Tanaro: I Tre Martelli e Giovanni Rapetti

 I nostri antenati consideravano ogni elemento della natura come animato: alberi, monti, fiumi e molto altro. Oggi è difficile immaginare come vedessero il mondo gli uomini prima dell'urbanizzazione, dell'industrializzazione e dell'arrivo del cristianesimo, ma se ci pensiamo bene forse non è impossibile. Magari non è così per tutti, ma quando ad esempio parliamo del Tanaro, del Po o di altri fiumi, proprio quando magari come nella scorsa estate, la sempre più grave mancanza di precipitazioni che li ha resi sempre più miseri o addirittura prosciugati, pensandoci bene possiamo vedere che i nostri sentimenti verso di "loro" possono essere di tipo "personale". Possiamo notare una certa empatia, come se i fiumi si fossero ammalati e stessero soffrendo. A me capita anche con i ghiacciai, non è solo il fatto di constatare che lo stato ecologico del nostro pianeta è pessimo e in peggioramento, ma si tratta proprio di un dispiacere e di una tristezza simile a quella che ho nei confronti di altre persone o esseri senzienti. Detto questo, i nostri avi spesso identificavano i corsi d'acqua come spiriti individuali oppure più recentemente come emanazioni di dei e divinità naturali. Al riguardo rimando al post sugli idronimi e sulle origini dei nomi dei fiumi in Piemonte: LINK

 

Alcuni anni fa i Tre Martelli, gruppo dedito alla ricerca, alla salvaguardia e alla reinterpretazione della musica e della cultura piemontese, ha registrato un fantastico disco con il poeta e scrittore Giovanni Rapetti (Villa del Foro 1922 - Alessandria 2014) detto anche "l'ultimo bardo alessandrino" il quale oltre ad avere scritto i testi fa anche da voce narrante di molti pezzi. Il lavoro si chiama "Cantè 'r paroli" (2012), tutto nel particolare dialetto di Villa del Foro che, come succede spesso da queste parti, differisce già leggermente da quello alessandrino che a sua volta costituisce una delle tantissime varianti di quello Piemontese. In ogni caso, nel disco in questione compaiono due tracce incredibili, per me commoventi, dedicate al fiume Tanaro, visto come prima come Divinità o Spirito naturale (Ra cornamusa an Tani) e poi come vero e proprio parente (U Testamèint D Barba Tani) purtroppo morente.

Testi (tradotti):

Ra cornamusa an Tani (La cornamusa nel Tanaro)

Tanaro è il tempo, divenuto acqua,
la deriva clessidra di gusci, sabbia,
tempo che veniva rotte le catene al gelo
canta vittoria
con le piante e i pesci,
gli uccelli, col sole in gloria.

Tanaro raccontava e racconta a stagli in ascolto
il pane mutino, saracco,
polenta fredda
borbottio divenuto memoria di quelli che tacciono
terre, sudori, carri, le vacche e l'asino.

Tanaro la piva dell'eco,
ripeteva
stagione del cespuglio,
dei richiami lungo la riva
raccontava i tempi,
dell'avvenire, all'aria pura
fagotto dei venti, respiro
della gioventù.

Cantava il vino, i canti
della nostra lotta
per vivere, per campare,
tempi tristi dell'idiota
la fame, il freddo, la paura
la prepotenza
liberare l'anima e i passi,
sorte, che vinca

Slegato il burchiello, giù il remo,
nell'acqua ondeggiante
lasciate alle spalle le case
che ballano la carioca
dalla confluenza del Belbo
in su non sanno più chi eri
là sabbie e piante
raccontano un mondo di misteri.

Storie di Tanaro morto;
di dove passava
al tempo dei tempi
della stella che chiamava le cornacchie bianche,
volpi, lupi, l'Eremita del nuovo
maschere ghigne di Carnevale,
tempo del rinnovo.

Racconta i fondoni del vortice dove tira l'acqua pulita e il pesce
a odorare la frescura
la palla di fuoco del sole,
occhi da morosa
storie dell'acqua santa
diventata bavosa.

L'airone, mangiare il pesce vivo,
vede solo la pesca il merlo dal becco giallo
fischiare la tresca 
taciuto l'usignolo c'è il cuculo sotto la luna
raccontare i ragazzi 
Ribelli dell'assassina.

Erano dei posti per i giovani sotto le piante?
Guardavamo in alto le stelle che sono tante
la terra gelata o molle,
semenze caine
con l'acqua a raccontare
solo piene e siccità.

Accesi due ramo, ossa di un'albera morta
scaldava le mani e l'anima,
divenuta contorta
interrogare il destino,
l'acqua che è indietro
passi nella sabbia i sogni,
dietro il giro di una sfera.

Quel tempo Tanaro una ruota da arrotino
forbici e coltelli che tagliano il filo della vita
ma c'è una cornamusa,
un cuore, cantiamo l'utero di Caterina
(la Morte) combattiamo

L'impronta dei piedi, della melma,
diavolo della zampa 
cantavamo insieme ai morti la nostra lotta
l'amore, l'onore, sudore dell'uomo,
sostanza cuore dell'armonia,
sogno della fratellanza.

sabato 25 settembre 2021

Il Dialetto Alessandrino, se resta qualcosa.

Questo è un breve post sul dialetto alessandrino, che, come gli alessandrini stessi, è ormai quasi scomparso. In quanti sanno parlare in dialetto in quella città? Oggi quasi nessuno, in pochissimi riescono a capirlo ed è limitato a qualche libro di nicchia e a studiosi ormai in gran parte anziani. Non succede solo nella città piemontese, ma da quelle parti la situazione è particolarmente grave. E' delicato parlare di questo tipo di argomenti che finiscono sempre per richiamare questioni identitarie e campanilistiche della peggior specie, tuttavia penso che lo scomparire di un dialetto sia il sintomo di una cultura che sparisce e, se la cosa è ormai inevitabile, sia giusto almeno cercare di documentarne alcuni caratteri.

L'Alessandrino è un dialetto orientale della lingua Piemontese, appartiene al gruppo dei dialetti monferrini ed è influenzato dal Lombardo e dall'Emiliano (che fanno parte della stessa famiglia delle lingue galloromanze dell'Italia settentrionale). Al contrario di quanto si legga ogni tanto, non ha alcuna influenza ligure (lo ha solo nella parte sud della provincia, culturalmente ligure) e, a differenza del dialetto Tortonese e delle parlate dei paesi ad est del capoluogo, l'Alessandrino resta uno dei dialetti della famiglia Piemontese.

Perché parliamo dell'Alessandrino? Perché questo dialetto conserva (o sarebbe meglio dire conservava) alcune caratteristiche che rimandano a periodi ancestrali precedenti alla latinizzazione: ad esempio la pronuncia resta più vicina a quella francese che a quella italiana e questo rende, tra l'altro, la trascrizione delle parole molto difficile. Un suono che contraddistingue la parlata locale ad esempio è quello della "R" che ritroviamo anche in altre zone del Piemonte e del nord Italia ma che non è tipico di tutta la lingua piemontese. In alcuni casi è detta "R" moscia dai connazionali, ma in realtà si tratta della "R francese" in cui il suono viene emesso senza "arrotare". Anche il modo in cui si pronunciano le vocali avvicina la parlata alessandrina a quella francese: La A generalmente viene chiusa come proprio nel caso del nome della città. Se in Piemontese si dice (A)Lissandria, localmente si la "A" centrale si chiude diventado quasi una "O" infatti generalmente si trascrive "Lisondria" con una S sola tra l'altro.
La stessa cosa succede con la "U" che si chiude e si legge come quella del Francese "Une" o con la "I" che invece sembra ad una E. Ma non essendo io un esperto linguista mi fermo qui e rimando ad approfondire su testi accademici, in ogni caso queste influenze sono antiche e non vanno ricercate nel periodo napoleonico in cui Alessandria, ma anche l'intero Piemonte erano in territorio francese (1800-1815) e in cui addirittura le strade della città avevano nomi francesi, ma nell'origine della lingua, che a differenza per esempio del torinese, ebbe a livello popolare, una minore influenza italiana e conservò questi suoni.



Il piemontese fa parte della famiglia delle lingue galloitaliche (come il Lombardo, l'Emiliano, ecc...) che a loro volta fanno parte della famiglia galloromanza (insieme alle lingue Occitane,
lingue d'oïl, le lingue franco-provenzali e quelle retiche, vedere la mappa sopra). Questa grande famiglia si differenzia dalle altre lingue romanze per il persistere di alcuni caratteri celtici nella parlata latina. E' facile infatti vedere nella mappa di qui sopra un sovrapporsi con i territori occupati dalle Gallie nel periodo romano. La Gallia Transalpina, Narbonense, ecc... in quella che oggi è la Francia, la Gallia Cisalpina in quella che oggi è l'Italia del Nord.

Ma torniamo all'Alessandrino, sono molti i termini in comune con il francese, pensiamo a Sortì per uscire o ai nomi di verdure e frutti, ma ce ne sono alcuni particolarmente significativi e unici che differenziano questo dialetto dal Piemontese e lo rendono unico. 

La parolo "Ghin" (si legge Ghèn nasale, italianizzato in Ghino) vuol dire Maiale e si differenzia dal piemontese "Crin". Il termine si ritrova solo in alcuni dialetti locali nella zona germanofona dell'Alsazia e del Baden-Württemberg il che testimonia un'origine precedente al periodo latino e tedesco, ovviamente, e fa risalire il termine ad un'origine celtica o proto-celtica. Un'altro termine è "Mata" che significa ragazza e che troviamo soltanto in altri dialetti dell'area romancia in Svizzera e che anche in questo caso testimoniano un'origine precedente alla latinizzazione.  

Vi rimando in oltre alla pagina Wikipedia dedicata: https://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto_alessandrino
 che incollo qui sotto:

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.


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Alessandrino
Lissandren
Parlato in Italia
Parlato in Alessandria (eccetto Novese, Ovadese, Casalese e Tortonese)

Tassonomia
Filogenesi Lingue indoeuropee
Romanze
Galloromanze
Galloitaliche
Piemontese
Dialetto alessandrino
Manuale


Il dialetto alessandrino (lissandren) è una varietà della lingua piemontese parlata in parte della provincia di Alessandria.


Indice
1Descrizione
2Brano in alessandrino
3Note
4Bibliografia
5Voci correlate
Descrizione[modifica | modifica wikitesto]

Sul dialetto alessandrino esiste una discreta documentazione storica relativa a poeti e scrittori in vernacolo. Importanti, anche se non numerosi, i personaggi alessandrini che nel corso dei secoli si espressero vernacolo. Alcuni amarono il genere letterario o meglio ancora il dialogo umoristico-satirico fin dal Cinquecento. Altri preferirono esprimersi scrivendo rime e composizioni in versi.

Caratteristica dell'alessandrino, che è un dialetto appartenente al gruppo orientale della lingua piemontese, è di differire in modo notabile dagli altri dialetti del Piemonte, in quanto maggiormente vicino alle varietà lombarde ed emiliane[1] (il continuum dialettale emiliano si estende infatti fino al Tortonese).

Per esempio: signore e signora vengono tradotti indistintamente come sciur e sciura tipici della lingua lombarda o come monsù e madamen tipici della lingua piemontese.
Brano in alessandrino[modifica | modifica wikitesto]

In òm l'éiva dói fiói.
Er pu giovo ëd sti fiói l'ha dicc a sò pari: “Papà, dami ra part dij ben ch'om toca!”. E lu o j'ha spartì e o j'ha dacc ra soa part.
E da léi a pochi dì, er fió pu giovo l'ha facc su tut e l'è andacc ant in pais lontan, e là l'ha sgarà tut er facc sò a fè der sbauci.
E quand ch'o n'èiva pu nént afacc, i è stacc 'na gran carestia ant col pais, e lu l'ha prinsipià a slantè par vivi.
E l'è andacc e o s'è antrodot an ca 'd jeun dij sitadin 'd col pais ch'o l'ha mandà a ra sò cassinna a fè ra vuardia ai ghén.
E bramava d'ampiss ra panza der giandori ch'i mangiavu ij ghén, e anseun a-j na dava.
Ma quand ch'l'ha vist o sò disingan, l'ha dicc: "O quanta gent 'd servissi an cà 'd mè pari, ch'i han der pan a uffa, e méi acsichì a ma mór dra fam!
L'è mèj ch'a m'àussa, e ch'a vaga da mè pari, e a-j dirò: Papà, méi a i hò mancà còntra o Sé e còntra téi
A 'n mérit gnanca pu d'essi ciamà tò fió. Tratmi 'mè ch'a fissa jeun d'o tò servissi".
E su ch'l'è stacc, l'è andacc da sò pari. Antratant ch'l'era ancora lontan, sò papà o l'ha vist e pijà da ra compassion o j'è cors ancòntra e o n'ha brassà er còl, e ol l'ha basà.
E is fió o j'ha dicc: "Papà, i hò mancà còntra o Sé e còntra 'd téi. A 'm mérit gnanca d'essi ciamà tò fió".
Er pari l'ha dicc ai sò servidor: "Prest, tiré fòra l'avstì pu pressios, e butèjli andòss, e mitij l'anel ant o dij e ij stivalèn ai pè.
E amnè chì er vidèl grass, e massèli, e ch'os mangia e ch'os staga alegrament.
Përché ist mè fió l'era mòrt e l'è risussità, o s'era pers e o s'è trovà". E léi i han prinsipià a fè 'n grand past e stèssni alégher.
Anlora er fió prim a l'era an campagna e quand ch'o tornava, e avzinàndsi a ra ca, l'ha santì ch'i sonavo e ch'i balavo.
E l'ha ciamà jeun dij servidor e ol l'ha interogà su ch'l'era su chì.
E l'àter l'ha rispòst: "L'é tornà a ca tò fradel e tò pari l'ha massà in vidèl grass përché ol l'ha ricuperà san e salv".
E lu l'é andacc an còlra e 'n voriva pu intrè drent; donca l'è surtì fòra er pari, ch'l'ha prinsipià a pregheli.
Ma lu a l'ha rispòst e l'ha dicc al sò pari: "L'è zà tancc ani che méi at serv, e a n'hò maj trasgredì jeun dij tò órdin, e 'n t' m'hai maj dacc in cravèt par ch'a 'm la godissa con ij mè amis.
Ma da dòp ch'o j'è avnì chì is tò fió, ch' l'ha divorà tut er facc sò con der doni 'mè si séja, t'hai massà par lu er videl grass".
Ma er pari o j'ha dicc: "Fió, téi t'èi sémper con méi, e tut col ch'a i hò méi l'é tò.
Ma l'era ben giust da fé in gran past e da fé festa përchè is tò fradel l'era mòrt e l'è risussità; o s'era pers e o s'è trovà".[2]

In questo brano si evidenziano tutte le differenze dell'alessandrino rispetto al piemontese standard (o koiné, dal greco antico, "lingua comune"):
-it e -ti a fine parola vengono pronunciati -cc, fenomeno molto diffuso sia nel piemontese orientale e meridionale che nel lombardo.
Alcune a del piemontese standard vengono pronunciate [ɔ] (scritte <o>) es.: Lissandria>Lissondria
L'articolo indeterminativo piemontese standard "ën" viene pronunciato [in]
Gli articoli determinativi singolari "ël" e "la" vengono pronunciati [er] e [ra] (tipico monferrino), oppure [ʊ] e [a] (influenza ligure).
La preposizione "për" viene pronunciata [par]
Le particelle che si assemblano in coda ai modi indefiniti dei verbi, che in koiné hanno varie finali (o,e), vengono pronunciate con la finale in "-i".
La seconda coniugazione e molte parole che nella koiné si scrivono terminanti per "-e" in alessandrino sono pronunciati terminanti per "-i".
mi (io) diventa [mɛj]; "ti" (tu) diventa [tɛi], "chiel" e "chila" diventano "lu" [ly] e "la", come in vercellese.
"lì" e sì" (lì e qui) del piemontese standard in alessandrino sono "lèi" [lɛj] (influenza emiliana) e "chì" [ki] (influenza lombarda).
I pronomi personali clitici del piemontese standard sono "i, it, a, i, i, a", nell'alessandrino diventano rispettivamente "a, it, o, -, -, i"
Il pronome personale clitico viene spesso eliso fra il che e il verbo che segue, come avviene anche in astigiano. (che a l'é > ch'a l'é > ch'l'é)
"già" diventa "zà" per un'influenza emiliana.
"pì" (più) diventa "pù", per un'influenza lombarda (pussee).
"un" [yŋ] del piemontese standard ("uno" inteso come numero e non come articolo indeterminativo) si pronuncia "jeun" [jøŋ].
La "n" faucale piemontese nelle parole femminili, viene sovente rimpiazzata da una doppia "nn". cassin-a>cassinna
Come in monferrino le finali in "-in" si aprono fino a diventare "-èn" (stivalin>stivalèn). bin [biŋ] (bene) viene pronunciato [bɛŋ].
Nel piemontese standard si dice "rëspondù", "vëddù", "corù", "perdù", "antrodovù" (regolari), mentre in alessandrino si usano (anche, ma non solo) gli irregolari "rëspòst", "vist", "cors", "pers", "antrodot". Questa caratteristica non è ammessa nella koiné.
L'aggettivo indefinito "ës" [әs] (questo) viene pronunciato [is].
Lessico tipico alessandrino:
ghèn: maiali; koiné: crin.
fió: figlio; koiné: fieul.
cincanta: cinquanta; koiné: sinquanta.
Tutte le variazioni diatopiche alessandrine elencate fino ad ora sono state circoscritte a pronuncia e lessico. La grammatica alessandrina ha due sole varianti rispetto a quella del piemontese standard, che non sono ammesse nella koiné:
La negazione può essere posta anche davanti al verbo come una 'n (es.: A 'n mérit gnanca pù d'essi ciamà tò fió, non mi merito neanche più di essere chiamato figlio tuo), ed è concesso il raddoppiamento della negazione ('n... gnanca), cosa che in koiné la annullerebbe di significato.
In koiné, quando si deve esprimere particelle dative, accusative, genitive o locative con i tempi composti di qualsiasi verbo, queste particelle vengono assemblate al participio passato. In alessandrino invece vengono assemblate al pronome personale clitico. Questa forma compare talvolta anche negli scritti in koiné. Non è scorretta, però è rara e ha un suono insolito, aulico o torbido a seconda del contesto.

domenica 1 novembre 2020

Gagliaudo e il carnevale tradizionale di Alessandria (ormai scomparso)

Articolo apparso qui: https://mitologiaalessandrina.blogspot.com/2020/09/gagliaudo-e-il-carnevale-alessandrino.html

Tra le infinite cose che si sono perse ad Alessandria il carnevale tradizionale è una di quelle particolarmente notevoli. E' ovvio che le cose cambino, succede ovunque, ma il carnevale è una di quegli eventi attraverso il quale sopravvivono memorie antiche, a volte antichissime addirittura preistoriche, di un posto e di un popolo particolare. La maggior parte delle volte queste memorie si presentano sotto forma di simboli difficili da decifrare anche quando il carnevale è cambiato completamente. Conservazioni virtuose, non solo per il paese, ma per tutti, esistono u po' in tutta Europa, dalle nostre parti bisogna segnalare La Lachera, il carnevale di Rocca Grimalda, con le sue maschere ed i suoi simboli propiziatori della rinascita primaverile. Ancora una volta invece Alessandria si distingue andando dalla parte opposta: del carnevale tradizionale non resta nulla: si può dire che anche questo sia un simbolo, triste, della perdita dell'identità profondo di una città e di un popolo che negli ultimi decenni è quasi sparito. Il carnevale si fa ancora certo, ma non conserva nulla dei suoi personaggi e dei suoi simboli.

Per caso ho trovato alcune foto in casa risalenti, credo, alla fine degli anni '80 (La Borsalino è stata demolita ma l'Esselunga non è stata ancora costruita) in cui si vede ancora gagliaudo con la sua povera mucca precedere la sfilata dei carri in Corso Cento Cannoni. Così ho deciso di fare qualche ricerca per salvare il salvabile di quel che resta di questa parte importante dell'anima di Alessandria.

"Il carnovale alessandrino, aduna, nell'ultimo giorno, una gran folla di cittadini attorno ad un personaggio tradizionale, un bifolco che spinge col pungolo una mucca dal ventre rigonfio."

scrive Agostino Barolo nel suo "Folklore Monferrino" del 1930, un interessante saggio sulle tradizioni in provincia di Alessandria che erano ancora rintracciabili in quel periodo. Comunque il bifolco in questione è GagliaudoGajoùd figura mitica alessandrina risalente al periodo dell'assedio della città da parte di Federico Barbarossa che durò dal settembre del 1174 alla primavera del 1175. L'esercito stringeva le mura della città ormai da mesi e la popolazione stava per finire le provviste pensando ormai di non resistere a lungo. In questi frangenti venne in soccorso lo stratagemma del vecchio contadino Gagliaudo Aulari, il quale riuscì ad ingannare in nemici ed a salvare la città. Con stupore dei cittadini, egli decise di sacrificare parte del prezioso frumento rimasto in città per ben sfamare una giovenca per poi portarla a pascolare fuori dalle mura attraverso la Porta Genova (che si trovava dove ora c'è via Marengo) e andando verso il campo dei tedeschi. I soldati avidi e affamati lo circondarono e uccisero la povera mucca che trovarono grassa e piena di grano. Con stupore i soldati avvertirono l'imperatore che volle quindi interrogare il pastore, il quale riferì che in città c'erano ancora così tante provviste da poter vivere tranquillamente per mesi. L'imperatore così dopo aver riflettuto sulla situazione decise dopo pochi giorni di togliere l'assedio lasciando liberi i giubilanti alessandrini che onorarono il loro furbo salvatore con una grossa somma di denaro. L'umile contadino però riufiutò continuando modestamente a pascolare le sue mucche in pace e tranquillità (questo è un altro di quei casi in cui esce bene il carattere umile ed introverso degli alessandrini).

Non si sa se la leggendaria figura di Gagliaudo abbia una qualche origine reale, ma il mito è così, più reale del reale e per gli alessandrini è sempre stata centrale e cuore della loro tradizione, espressione di un popolo amante della sua città e del lavoro. Amaramente mi viene da pensare per quanti sia ancora così e per quanti alessandrini di oggi siano ancora caratterizzati da umiltà, amore per il lavoro e per la 

loro terra.

Una canzone dedicata a Gagliaudo del vernacolo alessandrino per futura memoria:

L'è rivà! L'è rivà! L'è rivà! L'è rivà!


L'è rivà! L'è rivà! L'è rivà! L'è rivà!
A l'è rivà Gajòud, nost salvadour,
cûn ra so süera ansèma
che ansima dra so tûr,
un trèma nent, un trèma!
Ottsent ani circa fa
Barbarusa l'à tentà - ra mèina
ma i Lisandren, chi stavû preparà,
an tra tèinna l'an facc caschè, 'n tra tèinna!
J'an teis in trapûlen
con quater brancà d' gran,
pò i l'ann gnacà ben ben:
l'è acsèi ch'us fà ai tiran.
Lei alûra i Gajouden
j'ann mûstrà tant vigûr;
adess nûi Lisandren
j'ûma l'istess calûr!
L'è rivà! L'è rivà! L'è rivà! L'è rivà!

venerdì 1 maggio 2020

MASCHE E MASCONI: 2) La masca Micilina

Di Guido

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Tra tutte la Masche piemontesi, forse la più famosa è Micilina. Se cercate su google infatti vi compariranno decine di pagine dedicate a questa figura e compare persino in un racconto del grande Italo Calvino: "La barba del conte". Questa potrebbe essere la storia di una qualsiasi altra strega in giro per l'Europa del '600 se non fosse per la sua potenza e per alcuni particolari che vedremo qui sotto.

Micilina, che forse stava per Michelina, era nata all'inizio del '600 in un'umile famiglia di Barolo, ma giovanissima venne costretta a sposarsi con un contadino di Pocapaglia (CN) che da subito iniziò a farla lavorare duramente nei campi e picchiarla e umiliarla per ogni piccola cosa. Sembra che la ragazza avesse un carattere introverso che peggiorò con la nuova situazione famigliare e con il trasferimento nel nuovo paese, fino forse a farla impazzire. In oltre aveva i capelli rossi, caratteristica che subito l'aveva messa in cattiva luce di fronte ai nuovi compaesani. Da qui inizia la leggenda e forse è questo il bello di queste storie che si caricano di tutte quelle caratteristiche che ci interessano per ricostruire le credenze di questi luoghi in quelle epoche. C'è chi dice che fosse brutta e deforme, chi lo fosse diventata con l'età a causa delle botte e dei soprusi del marito ubriacone, chi invece dice che fosse bellissima da giovane, sta di fatto che sempre più spesso spesso la nostra signora iniziò a sparire all'improvviso e si dice che quando fosse davvero arrabbiata fosse in grado di chiamare la nebbia e i temporali. Tutti la evitavano per paura delle sue maledizioni, non bisognava incrociare il suo sguardo e non averci niente a che fare. Tuttavia sembra che Micilina non fosse davvero una Masca, la venne in contatto con le masche proprio nei boschi di Pocapaglia, le quali le offrirono la loro amicizia e le diedero il loro aiuto per vendicarsi del marito e di chi le voleva donandole il loro potere. Fu così che si dice che fosse in grado di trasformarsi in gatto nero, in corvo o addirittura in lumaca per sparire a comando o per andare la notte a incontrarsi con le altre masche. Si narra di gente colpita nei modi più strani. una ragazza che aveva toccato sulla spalla si ritrovo all'improvviso una gobba in quel punto, un altro ragazzo che era caduto alla sua vist, quando cercò di alzarsi si rese conto che aveva i piedi girati al contrario! Ma la svolta arrivò quando, si dice, con l'aiuto del maligno, fece cadere il marito dall'albero su cui stava lavorando che morì poco dopo. Da quel momento il suo potere diventa inarrestabile: storpiò dei bambini a Bra, fece colpire da un fulmine i fornaio di Pocapaglia, fece crescere la barba ad una giovane sposa di Pollenzo e i suoi poteri arrivarono fino ad Alessandria dove fece morire un Vetturale che l'aveva trattata in modo sgarbato (1). Si dice che Micilina vivesse ormai al di fuori del paese tra i rovi e le vecchie querce in una grotta scavata in una "Collina delle fate" (2) ancora oggi visibile, circondata solo da gatte nere, masche a loro volta e nessuno cercava ovviamente di avvicinarla.

La rocca di Pocapaglia vista da una delle grotte dove si dice vivesse la Masca.

Il punto di non ritorno venne raggiunto quando la terribile Masca venne accusata di aver fatto morire i bachi da seta della zona e fu così che un prete riuscì a fermarla con l'aiuto di preghiere benedette e soprattutto dell'acqua santa di una fonte benefica che si trovava in zona. Impossibilitata a scappare o trasformarsi, Micilina venne incatenata e trasportata in una cella nel castello di Pocapaglia. Qui, legata, torturata e soprattutto bagnata continuamente con l'acqua santa venne costretta a confessare tutto. Il rogo venne preparato su una rocca ancora oggi conosciuta come Bric de la Masca, oggi meta di turisti ed escursionisti. Grazie ad un libro conservato a Palazzo Traversa di Bra sappiamo che intervenne il tribunale di Savigliano che mandò un inquisitore e un giudice di Cherasco ad appurare i fatti: essi decisero che la terribile donna dovesse essere prima impiccata per impedire che l'anima lasciasse il corpo fisico e poi arsa sul rogo preparato sul bricco di qui sopra. Si dice che un lungo corteo di frati e monache incappucciati scortò la condannata e che quando il rogo venne accesso molti gatti neri uscirono dai boschi facendo miagolii striduli. Come promesso sembra che la nostra "strega" si sia reincarnata più volte in una gatta randagia che spunta dai boschi di notte e si aggira nei vicoli di Pocapaglia. In oltre si dice che con altre masche, tra le quali la ormai tre volte centenaria, Malamassa, partecipa ogni terzo plenilunio dell'anno al falò che si accende nelle radure tra i boschi o nei ritrovi della zona (presto un post) come la Zizzola o l'America dei boschi. 

Il "Bric della Masca"

(1) da MASCHE di Donato Bosca e Bruno Murialdo, pag. 68

(2) Colline delle fate: piccole colline franose che spuntano tra il verde visibili per la loro forma e per il loro colore grigio.

giovedì 13 febbraio 2020

Il ciclo di affreschi arturiani di Alessandria

Presentiamo qui le foto con le brevi descrizioni delle 15 scende del ciclo arturiano conservato alle Sale d'Arte di Alessandria (LINK) e originario della torre medievale di Frugarolo. I dipinti murali sono attribuiti ad un pittore lombardo anonimo e sono state realizzate alla fine del 1300. Questa serie di affreschi è un vero tesoro per vari motivi: ne esistono 5-6 in tutta Europa di così completi e questo è uno dei più antichi. E' accompagnato da vari commenti ancora in gran parte leggibili, per la derivazione dal Lancillotto del Lago e per la presenza di Galehot.

Ben prima che a pochi chilometri sorgesse la città di Alessandria, Frugarolo (allora Orba) era un luogo abitato al confine di una grande foresta, segnalato fra le "corti" soggette ad ospitare il sovrano in viaggio. Nel tredicesimo venne poi costruita una torre, e nel 1300 vi si insediarono i Trotti originari di Gamondio e di antica stirpe longobarda, una famiglia emergente. Arduino, già distinto per fedeltà ai Visconti e buone prove in più fatti d' arme, nel 1391, dopo un serio scontro sulla Bormida contro francesi, si trovò in quattrini ben meritati, e li usò per fare della sua torre una residenza da vero signore. Vi aggiunse un piano, coronato da una loggia, e per il nuovo ambiente, destinato a rappresentanza, cercò una decorazione conforme al gusto e alla moda della feudalità internazionale. La scelta di Arduino cadde sul re Artù della Tavola Rotonda, e in quel contesto bretone su una traccia ben precisa che era quella di Lancillotto, il cavaliere invincibile che soccombe a un amore adultero per Ginevra, la moglie del suo re. Da quella storia un pittore anonimo di area lombarda, trasse una fascia continua di affreschi alta due metri e venti, scandita in quindici episodi e distante ad altezza d' uomo dal pavimento di una sala rettangolare lunga più di undici metri per sette di larghezza. Passò tempo, i Trotti decaddero e gli affreschi della sala, ridotta a magazzino, sparirono sotto uno spesso strato di malta, e là sotto rimasero per altri quattro secoli fino al fortuito ritrovamento del 1971. Gli affreschi, visto il loro stato, furono subito strappati, riposti e dimenticati. Per altri trent' anni, fino a quando dopo un accurato restauro vennero esposti nel 1999 all'ex chiesa medievale di San Francesco.

Il ciclo di affreschi suscita un' attenzione speciale per il valore del documento. Sappiamo infatti da memorie, cronache ed altre fonti scritte che era diffuso costume, e anzi moda nobiliare il ricorrere per decorazione di interni ai romanzi cavallereschi. Ma gli esempi superstiti di un tal uso sono rari. Quelli poi del ciclo arturiano, se coerenti e ancora leggibili, si contano in tutta l' Europa sulle dita di una mano. Gli affreschi di Frugarolo si distinguono per più aspetti. Uno è la presenza di estese scritte che accompagnano, spiegandoli, i singoli episodi. Un altro è la forte caratterizzazione dei personaggi ricorrenti (Artù con barba fluente, Ginevra con chioma bionda sciolta, la Dama di Malohaut coi capelli intrecciati a nastri, Lancillotto con bionda e bifida barbetta, e se con l' elmo, connotato per togliere incertezza da una "L."). Un altro aspetto ancora è la chiara derivazione di sequenze e figure da un manoscritto miniato del Lancelot du Lac Chretien de Troyes o d' altro romanzo affine. Ma il tratto più singolare è il rilievo dato alla figura del principe delle Lointaines Isles, Galeotto, come costante e impagabile compagno e consigliere dell' eroe in tutte le sue imprese, sia d' amore che di battaglia. Quella insistita presenza racchiude un duplice messaggio, diretto in alto e all'intorno. Galeazzo infatti è variazione di Galeotto, e Gian Galeazzo era il nome del signore (e forse allora già duca) di Milano, che per gli eroi arturiani notoriamente stravedeva; e ugualmente s' era chiamato il suo primogenito ed erede, morto giovane e ancora compianto. Il posto fatto al suo omonimo in quegli affreschi andava inteso da quel Grande come un rinnovato omaggio e profferta di fedeltà; e da ogni altro come un avvertimento dell' intimità (vera o pretesa) sussistente fra l' accorto Arduino e il Visconti da lui servito.


 Frammento 1: Lancelot è ordinato cavaliere dalla regina Ginevra. Il commento ancora oggi leggibile sottolinea il fatto che Lancelot viene ordinato cavaliere da Ginevra e non dal Re.


Frammento 2: Re Artù (non è sicuro che si tratti del Re, ma la somiglianza con l'Artù delle altre scene lo lascia intuire) istruisce Lancelot nell'arte della falconeria.


Frammento 3: Lancelot conquista il castello della Douloureuse  Garde. Lancelot appare due volte sulla singola scena: a sinistra sta sconfiggendo dieci cavalieri dotati di forse soprannaturali. A destra i quattro sopravvissuti si arrendono al vincitore.


Frammento 4: Lancelot costringe il principe Galehot che aveva sbaragliato tutti gli altri cavalieri della tavola rotonda ad arrendersi a Re Artù.


Frammento 5: Lancelot e Ginevra si danno il primo Bacio. Ginevra favorisce l'amore tra il principe Galehot e la Dame de Malohaut.


Frammento 6: Lancelot e Ginevra, Galehot e la Dame de Malohaut consumano il loro amore.


Frammento 7: Lo scudo magico donato a Ginevra dalla Dame du Lac si riunisce testimoniando l'avvenuta consumazione del rapporto.


Frammento 8: Lancelot uccide un cavaliere sassone mentre Artù è rinchiuso dall'incantatrice Gamelle.


 Frammento 9: Lancelot entra nella torre dei sassoni, uccide gadrasolain e poi libera Artù.


Frammento 10: Lancelor uccide il secondo cavaliere della falsa Ginevra con un giavellotto.


Frammento 11: questa scena è purtroppo fortemente danneggiata. Si pensa che rappresenti la liberazione di Lancelot dall'incantesimo di Escalon le Ténébreux nella chiesa sotterranea del castello di Pintadol a cui si accede attraverso una sala oscura invasa da presenze diaboliche.


Frammento 12: anche questa scena è molto danneggiata ma in essa riconosciamo Lancelot che rende omaggio ad Artù in presenza di Ginevra.


Frammento 13: Il primo di tre duelli che contrappongono Lancelot al di Gorre, Méléagant.


Frammento 14: Lancelot uccide Méléagant alla presenza di Artù e Ginevra.


Frammento 15: la scena è annerita da un incendio e rappresenta la penitenza e poi la morte di Lancelot. In basso si vede la Dame du Lac, madrina di Lancelot.

Bibliografia: Catalogo "Le stanze di Artù" - Electa.

Guido